La comunità astrofisica mondiale ha vissuto ieri una giornata simile a quella che, il 16 ottobre 2017, sancì la nascita dell’astronomia cosiddetta multi-messenger. Allora i due “messaggeri” erano stati un lampo gamma e un’onda gravitazionale. Questa volta, invece, a fare da controcanto ai fotoni gamma è stato un neutrino: quello che ha prodotto l’evento 170922A, registrato da IceCube il 22 settembre 2017 nelle viscere dei ghiacci antartici. Un neutrino, come abbiamo scritto su Media Inaf, che prima di essere intercettato da IceCube ha viaggiato circa 5 miliardi di anni.
A produrre l’emissione del neutrino è stato molto probabilmente un blazar, Txs 0506+056. Ed è proprio nella zona d’universo in cui bazzica il blazar che un team di astrofisici guidato da Paolo Padovani dell’Eso – una squadra guidata da tre italiani: oltre a Padovani, Paolo Giommi dell’Asi ed Elisa Resconi della Technische Universität di Monaco – è andato a interrogare, come farebbe un bravo detective, alcuni personaggi sospetti, per verificare che il colpevole fosse proprio Txs 0506+056. I risultati delle indagini sono appena stati pubblicati su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, ed è dallo stesso Padovani che ce li siamo fatti illustrare.
Padovani, ci dica anzitutto qualcosa sull’altro indiziato, Pks 0502+049. Chi è? E come era finito nella vostra lista di sospettati?
«L’altro indiziato è un altro blazar, sospettato perché anche lui, come Txs 0506+056, è una sorgente potente e variabile di raggi gamma. Inoltre, a fine 2014, quando dalla stessa regione erano arrivati ben 13 neutrini, Pks 0502+049 aveva prodotto un lampo gamma mentre Txs 0506+056 era rimasto tranquillo. Questo indizio è un punto cruciale, perché i protoni che producono i neutrini generano anche emissione gamma: una sorgente gamma dominante dovrebbe essere quindi la sorgente di neutrini».
Poi, però, lo avete depennato dalla lista. Cosa vi ha convinti della sua innocenza?
«Il fatto che, nonostante le apparenze, un’indagine più accurata ha mostrato non soltanto che era pur sempre Txs 0506+056 che dominava nella zona l’emissione gamma ad alte energie, ma anche che aveva un flusso simile a quello dei neutrini: un chiaro indizio che il meccanismo di produzione delle due diverse componenti, gamma e neutrinica, fosse lo stesso».
E così, alla fine, nella rete è rimasto impigliato solo Txs 0506+056. Nel vostro rapporto scrivete d’aver raccolto prove che abbia usato un’arma che dal nome parrebbe micidiale: un “flare adronico”. Che cos’è? E cosa ci dice, della personalità del blazar, il fatto che abbia fatto ricorso proprio a quest’arma?
Un “flare adronico” è una scarica di protoni di altissima energia – energia di gran lunga maggiore di quella raggiungibile col Large Hadron Collider al Cern di Ginevra – che, scontrandosi con i fotoni di più bassa energia emessi dal getto dello stesso blazar, produce sia raggi gamma sia neutrini. Rimane una questione aperta, implicita nella sua domanda: perché tra le migliaia di blazar conosciuti siamo riusciti a incriminare solo Txs 0506+056? In effetti, riteniamo che altri blazar abbiano usato la stessa arma, ma non abbiamo ancora raccolto prove sufficienti per inchiodarli».
Né lenti né luminol: per condurre le indagini vi siete avvalsi di un nuovo strumento, Open Universe. Di che si tratta?
«Volevamo essere più che certi della colpevolezza di Txs 0506+056, quindi abbiamo esaminato oltre 600 sospetti presenti nella stessa zona e con forte emissione radio o X. Tra questi indiziati, solo sette erano sorgenti radio e X, caratteristica tipica dei blazar. Un’ulteriore e più approfondita analisi ha scagionato quattro oggetti che non sono risultati essere possibili sorgenti di neutrini. E delle tre rimaste, solo due sono sorgenti gamma: Txs 0506+056 e Pks 0502+049. Tutto questo lavoro è stato reso possibile, appunto, da Open Universe, una nuova iniziativa nata sotto l’egida del comitato delle Nazioni Unite sull’utilizzo pacifico dello spazio extra-atmosferico. Abbiamo utilizzato software sviluppato appositamente da un gruppo guidato da Paolo Giommi dell’Asi per identificare blazar utilizzando dati provenienti da varie bande, e che si basa su infrastrutture create dall’Osservatorio Virtuale. Senza Open Universe il nostro lavoro sarebbe stato molto più complesso e lungo».
Insomma, il colpevole è proprio quel blazar, al di là di ogni ragionevole dubbio?
«Direi proprio di sì: gli spari provenivano dalla zona in cui Txs 0506+056 si trovava, e ha sparato non una sola ma ben due volte a distanza di circa tre anni. Il primo colpo ha prodotto un lampo gamma e il secondo un’emissione gamma ad alte energie. Infine, le “pallottole” fotoniche e neutriniche hanno circa lo stesso flusso. Stiamo comunque continuando il nostro lavoro investigativo per capire che cosa rende Txs 0506+056 così speciale e per trovare altri casi di “flare adronici” da blazar. Abbiamo già risultati molto interessanti: stay tuned…».
Per saperne di più:
- Leggi su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society l’articolo “Dissecting the region around IceCube-170922A: the blazar TXS 0506+056 as the first cosmic neutrino source“, di P. Padovani, P. Giommi, E. Resconi, T. Glauch, B. Arsioli, N. Sahakyan e M. Huber
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Inizia l’era dell’astronomia dei neutrini“
- Leggi su Media Inaf l’articolo “Un neutrino da 5 miliardi di anni“