SPECIALE BEPICOLOMBO: LUCIANO IESS

Verso Mercurio cercando crepe nella Relatività

Si chiama More, acronimo per Mercury Orbiter Radioscience Experiment, e riflettendo come uno specchio complessi segnali radio ad altissima frequenza, inviati da due enormi antenne terrestri, permetterà alla missione Esa BepiColombo di tracciare una sorta di tomografia dell’interno di Mercurio. E di mettere alla prova la Relatività generale di Einstein

     18/10/2018

Luciano Iess, principal investigator dell’esperimento More a bordo della missione Esa BepiColombo

È un veterano di BepiColombo, Luciano Iess, professore al Dipartimento di ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza e responsabile di More (Mercury Orbiter Radioscience Experiment), lo strumento per esperimenti di radioscienza a bordo della sonda dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Nato a Padova, laurea a Pavia e da allora a Roma, alla Sapienza, Iess ha cominciato a lavorare su BepiColombo sin dal 1997 – quando ancora la missione nemmeno si chiamava così – come membro dello Science Advisory Group dell’Esa. «Sono ventun anni…», riflette al telefono con Media Inaf mentre è in procinto di partire per Kourou, quando ormai mancano una manciata di ore alla prima finestra di lancio. «Certo, avrei voluto vederlo partire prima, nel 2013, però insomma, via… È stata un’attesa molto lunga».

Un’attesa molto lunga che dovrebbe terminare, se tutto va come da programma, nella notte fra venerdì e sabato 20 ottobre, alle 3:45 ora italiana. Portando finalmente anche il suo strumento, More, uno dei quattro a guida italiana a bordo della sonda, a intraprendere un viaggio di sette anni verso il pianeta più interno del Sistema solare: Mercurio.

Per fare che cosa?

«More è uno strumento che permette di determinare come la sonda spaziale BepiColombo “cade” nel campo di gravità di Mercurio, o del Sole. E questo consente di compiere test sulla Relatività generale».

Come ci riesce?

«Occorre una premessa: non c’è nessuno strumento a bordo di un satellite in grado di misurare la gravità di un corpo. È una conseguenza del principio di equivalenza: tutti i corpi in un campo di gravità – piume, martelli, sonde spaziali, pianeti – cadono con la stessa accelerazione. Quindi, se io voglio misurare la gravità con uno strumento – per esempio con un accelerometro, come potrei fare qui sulla superficie terrestre – questo a bordo di un satellite non funziona, perché misurerei un perfetto zero. Questo perché la massa di prova di questo accelerometro cade – nel campo di gravità di Mercurio, del Sole, di tutto quello che c’è – con la stessa accelerazione con cui cade la sonda spaziale. Un accelerometro, o un gravimetro, che qui sulla Terra misurano l’accelerazione di gravità, nello spazio misurano un bello zero. E non c’è nessuno strumento a bordo di un satellite che può misurare la gravità di un corpo».

Ora è chiaro come non ci si si riesca. Ma c’è una via d’uscita?

«Sì: attraverso misure differenziali. Devo vedere come BepiColombo cade nel campo di gravità di Mercurio stabilendo un punto di osservazione che deve essere il più lontano possibile, per esempio la Terra. Quindi io da Terra misuro velocità e distanza di BepiColombo e in questo modo determino la gravità di Mercurio».

Una sorta di ecografo?

«Non proprio… è semplicemente un sistema che ci permette di misurare, via radio, velocità e distanze con grandissima precisione. Quindi noi da un’antenna di terra mandiamo un segnale radio verso la sonda spaziale. C’è uno strumento, il “KaT” (Ka-band transponder) di More, che lo ritrasmette coerentemente verso la Terra. E noi a terra misuriamo l’effetto doppler – quindi lo spostamento di frequenza, che ci dà la velocità relativa – e anche il tempo di volo di una modulazione – se vogliamo di un fotone, di una modulazione radio – che ci dà, invece, la distanza. Da questi dati, grazie ai codici di determinazione orbitale, riusciamo a ricostruire una posizione tridimensionale e una velocità tridimensionale».

Quali antenne utilizzate, qui sulla Terra, per questo lavoro?

 «Le antenne sono due: una è l’antenna dell’Esa a Malargüe, in Argentina, un’antenna da 35 metri, e l’altra è l’antenna Dss 25 della Nasa, del Deep Space Network, che si trova a Goldstone, in California. Sono le uniche due antenne al mondo che oggi possono essere impiegate per le misure di More».

A che frequenza trasmettono?

«Per la parte scientifica, le frequenze in gioco sono a 32-34 GHz, quindi sono frequenze molto elevate, quella che si chiama “banda Ka”. Invece per la navigazione standard e le telecomunicazioni standard si usa la banda X oppure in downlink la banda Ka. Però il link di precisione, quello stabilito da More, è Ka-Ka».

Con quale precisione riuscite a determinare velocità e distanza della sonda?

«Contiamo di raggiungere precisioni, nella misura di velocità, a livello di qualche micron al secondo. Per quanto riguarda invece la misura della distanza relativa, dovremmo arrivare a 20 cm con le misure in single shot, mentre se ne acquisiamo parecchie in un giorno dovremmo scendere addirittura a un paio di centimetri».

Un collegamento radio ad alta velocità fra BepiColombo e la Terra consentirà, tramite More, di calcolare con precisione la velocità e la posizione della sonda. Crediti: Esa

A proposito, l’acquisizione dei dati ogni quanto avviene?

«I dati di velocità più o meno ogni secondo, per quanto riguarda invece il ranging diciamo una misura di distanza ogni dieci minuti».

In altre missioni planetarie è mai stato usato un sistema simile o è la prima volta?

«È stato impiegato un sistema simile, abbastanza simile, per Cassini, nella fase di crociera, attorno al 2001-2002, però in quel caso non era possibile la misura di distanza – era possibile solo la misura di velocità. Val la pena ricordare che Cassini detiene tuttora il record mondiale di precisione nelle misure di velocità, parliamo di meno di un milionesimo di millimetro al secondo. Però, appunto, disponendo anche del ranging il nostro è un sistema nuovo. Tra l’altro questo strumento – il KaT, che è la chiave per lo “specchio radio”, diciamo così, che sta a bordo, e che in realtà è un trasponder che riceve e ritrasmette il segnale – è stato costruito qui in Italia da Thales Alenia Space».

Perché è così importante ricostruire il campo di gravità di Mercurio?

«La gran parte degli strumenti vedono quello che succede nelle superfici o nelle atmosfere planetarie. Se noi vogliamo invece andare sotto la superficie, vedere attraverso la superficie, abbiamo bisogno di forze a lungo raggio. La radiazione elettromagnetica, per esempio, non va bene: si blocca sulla superficie del pianeta, la prima cosa opaca diventa un ostacolo insormontabile. Per vedere che cosa c’è dentro abbiamo dunque bisogno di forze a lungo raggio, forze che passano attraverso la materia. Una di queste forze è certamente la gravità. La gravità del pianeta ci dice come sono distribuite le masse internamente – seppur con una certa ambiguità, perché purtroppo la gravità è intrinsecamente ambigua. Quindi dalla gravità del corpo non è possibile in maniera univoca risalire alla distribuzione delle masse, però con l’aiuto di modelli geofisici questo diventa possibile. L’altra forza importante, che viene dal profondo di un pianeta, è quella dei campi magnetici. Queste sono le due sorgenti principali per ottenere informazioni sugli interni planetari. E gli interni planetari contengono la chiave dei processi di formazione di un pianeta: ci dicono se ha un nucleo, se c’è un nucleo interno ed esterno, qual è la sua densità e così via».

Un po’ come, se Mercurio fosse un corpo umano, riuscissimo a capire che in una certa regione c’è una cavità – e dunque potrebbe essere lo stomaco, mentre poco al di sotto c’è una regione densa che potrebbe essere il fegato…

«Esatto, diciamo che si potrà vedere se c’è un nucleo interno, si potrà misurare con maggiore precisione la densità, lo spessore della crosta – questo anche con l’aiuto del laser altimetro, che è il nostro strumento gemello, quello con cui lavoreremo maggiormente. Sostanzialmente More è uno strumento che, assieme ad altri, ci permetterà di effettuare una sorta di tomografia precisa di Mercurio. Ma questa non è l’unica cosa che farà: uno degli obiettivi più importanti di More riguarda la parte relativistica della gravità: consentirà di compiere test della teoria di Einstein».

In che modo?

«Osservando come i fotoni dei segnali radio si propagano in prossimità del Sole, che è la massa più grande del Sistema solare, e come Mercurio si muove attorno al Sole. Per esempio misureremo con grande precisione la precessione del perielio di Mercurio, che è stato il primo successo sperimentale, se vogliamo, della Relatività generale. Faremo anche un test del principio di equivalenza forte, misureremo appunto la velocità di propagazione dei fotoni in prossimità del Sole, il cosiddetto time delay… Quindi c’è tutta una parte relativistica che si farà anche nel periodo di crociera, prima che la sonda arrivi a destinazione».

Questo è possibile perché anche le onde radio che vi scambiate tra More e le antenne a Terra vengono in qualche modo deflesse dai campi gravitazionali che attraversano?

«Sì, deflesse, ritardate e spostate in frequenza dalla gravità solare. In più, grazie al nostro sistema di ranging molto accurato, saremo in grado di seguire il moto di Mercurio attorno al Sole e di misurare con grande precisione tutti gli effetti relativistici connessi. In sostanza More ci permetterà di vedere di quanto è violato il teorema di Pitagora in prossimità del Sole».

Quanto sia perturbata la piattezza dello spazio…

«Sì, a me piace vederla proprio in questi termini. In uno spazio piatto vale il teorema di Pitagora, e la somma degli angoli interni di un triangolo dà 180 gradi, ma oggi noi sappiamo che lo spazio non è piatto: ci sono delle violazioni a livello di 10-8, una parte su 100 milioni, vicino al Sole e di una parte su 10 miliardi vicino alla Terra. E noi vogliamo misurarle, perché è chiaro che la Relatività – con ogni probabilità, è quasi certo, ormai lo credono quasi tutti – non è la teoria finale della gravità. Questo per la sua incompatibilità con la meccanica quantistica: è proprio incompatibile. Ma non sappiamo a quale cifra decimale verrà violata. Ora ci sono due missioni, BepiColombo e anche Gaia, la missione astrometrica dell’Esa, che misureranno, per esempio, la deflessione, oppure il ritardo dei segnali radio. E se arrivassimo a ottenere due misure indipendenti, effettuate con due metodi completamente diversi, che indicano lo stesso livello di violazione, la cosa verrebbe presa in maniera estremamente più seria».


Le interviste dello speciale di Media Inaf dedicato agli strumenti di BepiColombo:

Guarda su MediaInaf Tv l’intervista a Carmelo Magnifico su Isa e More: