Uno studio della Durham University (UK), in uscita su Monthly Notices, pone interrogativi sulle misure del satellite WMAP. Se fosse confermato un errore nella calibrazione del beam, l’energia oscura e la materia oscura non sarebbero così necessarie. Conferma, o smentita, che Planck potrebbe fornire. «Per ora andiamoci cauti», raccomanda Mandolesi
Lambda-CDM, questo il suo nome. È il modello standard della cosmologia, quello secondo il quale dell’universo conosciamo appena il 4 percento. Tutto quel che rimane se lo spartirebbero due componenti che più enigmatiche non si potrebbe: circa il 74 percento va all’energia oscura (associata a quel “lambda”, ovvero la costante cosmologica) e il resto alla materia oscura fredda (ed ecco spiegato il CMD: cold dark matter). Per quanto esotico, è un modello che poggia su pilastri piuttosto solidi. Pilastri le cui fondamenta si basano su evidenze osservative molteplici, inerenti le supernovae Ia, le strutture a larga scala (come gli ammassi di galassie) e la radiazione cosmica di fondo a microonde (CMB). Pilastri, però, che negli ultimi tempi c’è chi ritiene un po’ ballerini.
È del marzo 2010, per esempio, la scoperta di una supernova Ia piuttosto sui generis, SN 2007if, che mal si concilia con la presunta regolarità di questa classe di sorgenti. Risale invece al novembre scorso un articolo, i cui due primi autori sono Utane Sawangwit e Tom Shanks della Durham University (UK), stando al quale i fotoni, attraversando gli ammassi di galassie giganti, non si comporterebbero come il modello standard vorrebbe. E decisamente il Lambda-CDM non sembra essere in cima alle preferenze del professor Shanks e del suo dottorando Sawangwit. Sul numero in uscita di Monthly Notices of the Royal Astronomical Society: Letters, i due cosmologi firmano infatti un secondo articolo che mette in dubbio, questa volta, il terzo pilastro: lo spettro di potenza delle anisotropie di temperatura della CMB, misurato dal satellite WMAP della Nasa, sostengono, non sarebbe così accurato come si crede.
Per Giove, la messa a fuoco non torna
Da bravi scienziati, Tom Shanks e Utane Sawangwit hanno fatto come san Tommaso. Mentre il grosso della comunità scientifica cercava faticosamente di costruire un modello in grado di spiegare i dati che giungevano da WMAP, loro sono andati a fare le pulci al metodo di ricostruzione del beam del telescopio spaziale. Per calibrare la risposta dei propri ricevitori, il team di WMAP si affida a sorgenti di microonde ben conosciute, prima fra tutte Giove. Shanks e Sawangwit, invece, hanno rifatto i conti usando delle radiosorgenti molto più deboli. Ed è saltata fuori una discrepanza.
Abbiamo chiesto a Shanks (in fondo alla pagina è disponibile l’audio completo dell’intervista) di spiegarci meglio cos’hanno fatto e che risultati hanno ottenuto: «La mappa del fondo cosmico viene ammorbidita, sfocata (smoothed), dal telescopio di WMAP. Un po’ come avviene con le stelle, per effetto della distorsione atmosferica, quando le osserviamo da Terra. Ecco, nello stesso modo, il radiotelescopio di WMAP “sbava” (smears out) i dettagli della mappa. La domanda è: quanto? Per rispondere, abbiamo analizzato qualche centinaio di sorgenti radio, fra quelle presenti nella mappa di WMAP, per misurare quanto erano state sfocate. E abbiamo scoperto, con sorpresa, che erano più sfocate di quanto il team di WMAP suppone».
E questo, se confermato, potrebbe avere conseguenze? Secondo Shanks, sì: «Le “increspature” del fondo cosmico—o picchi acustici, o fluttuazioni, o comunque vogliate chiamarle—sono fondamentali per la cosmologia. Si ritiene che, nelle mappe a microonde, abbiano una dimensione angolare piuttosto elevata: circa un grado. Ma questa grande ampiezza potrebbe essere, in realtà, l’effetto di una sfocatura maggiore di quella prevista. L’ampiezza reale potrebbe risultare minore del 40-50 percento. Ora, il modello standard della cosmologia, quello che comprende materia oscura fredda ed energia oscura, è il modello che prevede, per queste fluttuazioni della mappa del fondo cosmico a microonde, le scale maggiori. Dunque, se le increspature dovessero rivelarsi molto più piccole, potrebbero esser presi in considerazione altri modelli. Modelli che potrebbero fare a meno di energia oscura e materia oscura».
Risultati da prendere con le molle, in attesa dei dati di Planck
Si tratta, è bene sottolinearlo, di un risultato ancora tutto da verificare. Secondo Paolo Natoli, ricercatore all’università di Roma Tor Vergata ed esperto della CMB, i due articoli di Sawangwit e Shanks sono «lavori che meritano molta attenzione. Quest’ultimo sulla ricostruzione dei beam, in modo particolare, ha il pregio di concentrarsi sui dettagli dell’analisi dei dati dell’esperimento WMAP. Dettagli che molti ricercatori tendono a dare per scontati. Invece, qui si mostra come cambiando, anche di poco, la stima delle distorsioni ottiche indotte dal telescopio, cambiano, e in maniera drammatica, le conclusioni cosmologiche. Al punto da mettere a repentaglio il modello “standard” piu accreditato. Va anche detto, però, che il team di WMAP ha sempre reagito in maniera convincente ai dubbi avanzati sinora sul modo in cui hanno analizzato i propri dati: aspettiamo dunque di sentire cos’hanno da dire al riguardo».
E in effetti una prima risposta, dal team di WMAP, è appena arrivata: dalle colonne del New Scientist hanno fatto sapere che le radiosorgenti osservate dal loro telescopio, dunque quelle sulle quali si sono concentrati Sawangwit e Shanks, non sono adatte a essere usate come calibratori.
Altrettanto prudente il responsabile dello strumento LFI di Planck, Reno Mandolesi, direttore dell’INAF-IASF Bologna. «Certo si tratta di un lavoro di grande interesse: lo smearing del beam», spiega, riferendosi all’articolo uscito oggi su Monthly Notices, «è un effetto sistematico fra i più importanti, su questo non c’è dubbio. Con Planck, siamo da sempre attentissimi a tenerlo nella giusta considerazione. È in ogni caso un effetto il cui impatto sui dati è molto difficile da quantificare in modo preciso: occorre un’ottima conoscenza dell’intero satellite e dei suoi strumenti. Dunque, prima di saltare a conclusioni su come questo effetto sistematico si potrebbe riflettere sulla composizione dell’universo, sono necessari ulteriori approfondimenti. E tanta, tanta cautela».
Quanto al precedente articolo di Sawangwit e Shanks, e più in generale sullo stato di salute del modello Lambda-CDM, Paolo Natoli ne considera «i risultati interessanti, perché alimentano alcuni dubbi, per ora molto velati, che girano nella comunità: recentemente, per esempio, è stata criticata l’interpretazione delle osservazioni delle supernovae di tipo Ia, un vero pilastro della nostra conoscenza dell’accelerazione dell’universo, dovuta alla componente “oscura”, la cui esistenza è sostanzialmente confermata da WMAP. A ogni modo, se da un lato è sano che vengano avanzate critiche, bisogna essere molto cauti nelle conclusioni. Finché la questione resterà confinata al solo WMAP sarà difficile dare una risposta definitiva al problema. Solo Planck, che è un esperimento diverso da WMAP, e molto più preciso, potrà confermare o smentire con autorevolezza questo e altri dubbi».
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L’intervista audio integrale rilasciata da Tom Shanks a Media Inaf:
http://gallery.media.inaf.it/multimedia/2010/mp3/20100611-tom-shanks.mp3|