Almeno il 20 per cento delle galassie più lontane, sorte nella notte dei tempi, ci appaiono più grandi o più luminose di quanto siano realmente a causa di un effetto chiamato “lente gravitazionale forte”. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Si tratta di un fenomeno arcinoto, previsto già dalla teoria della relatività di Einstein e sfruttato da tempo. Pare, però, che il particolare allineamento astrale che magnifica la vista di oggetti altrimenti invisibili avvenga molto più frequentemente di quanto finora creduto, in particolare per gli oggetti molto distanti. E pare anche che non sempre gli astronomi siano in grado di distinguere se stanno osservando il cosmo attraverso una lente d’ingrandimento, oppure no. Il che significa che le caratteristiche delle galassie primordiali potrebbero risultare falsate, a meno di non tener conto di questo fattore. Questo è l’avviso ai naviganti spaziali lanciato sulle pagine della rivista Nature da Stuart Wyithe, dell’Università di Melbourne, e suoi colleghi.
L’effetto lente gravitazionale è, insomma, un’arma a doppio taglio. “Da un lato è buono, in quanto ci permette di individuare galassie che sarebbero altrimenti invisibili. D’altra parte, può ingannare se non ne teniamo conto”, ha precisato Haojing Yan, co-autore della ricerca, presentata contestualmente nel corso del convegno di Seattle dell’American Astronomical Society.
Il fatto è che, quando si guarda molto, molto lontano, fino ad ammirare galassie che si sono formate nel primo miliardo di anni di vita dell’Universo, è molto probabile che sia la gravità a metterci lo zampino. Se infatti una galassia lontana e una galassia vicina si trovano allineate nel cielo, la gravità della galassia vicina piega la luce proveniente dalla galassia lontana. In questo modo, la galassia vicina funge da lente d’ingrandimento. In pratica, per noi sulla Terra, è come se la galassia vicina agisse come un teleobiettivo, con uno zoom molto spinto.
Gli astronomi sfruttano questo effetto per vedere oggetti altrimenti invisbili, come i pianeti in orbita attorno ad altre stelle. Analizzando le immagini della collezione “Ultra Hubble Deep Field” del telescopio spaziale, dove sono raccolti i ritratti dell’Universo di 13 miliardi di anni fa scattati da Hubble, i ricercatori si sono accorti che non era affatto un’impresa semplice calcolare quante delle galassie dell’epoca erano brillanti e quante, invece, debolmente luminose. Non c’è ancora infatti un metodo infallibile per rilevare lo “zampino” della lente gravitazionale. L’analisi statistica suggerisce però che almeno una galassia su cinque con redshift superiore a 12 risulti amplificata dalla gravità di altre galassie in primo piano.
“Vogliamo mettere in chiaro che la dimensione dell’effetto dipende da una serie di fattori di incertezza. Se, per esempio, le galassie molto lontane sono molto più deboli rispetto alle loro controparti nelle vicinanze, ma molto più numerose, allora la maggior parte di quelle galassie risulteranno affette dall’effetto lente”, ha precisato Yan.
Per avere le cifre esatte del fenomeno, bisognerà aspettare la messa in orbita del James Webb Space Telescope. Intanto, sempre sulle pagine di Nature, un altro gruppo di ricercatori ha annunciato di aver scoperto un protocluster di galassie. Che cos’è? Il progenitore ancestrale di un massiccio cluster di galassie. Una specie di gigantesca metropoli preistorica. Data di nascita: appena un miliardo di anni dopo il Big Bang. Il protocluster, individuato da Peter Capak del California Institute of Technology di Pasadena (Usa) grazie a una serie di telescopi, come Chandra, Spitzer e Hubble della Nasa, occupa una vastissima regione, dove si trovano accalcate miriadi di stelle: una galassia estremamente luminosa, circondata da diverse altre galassie più un quasar, per un’estensione complessiva di 40 milioni di anni luce. Ci sarà l'”inganno” lente gravitazionale? Stavolta no: il redshift del protocluster è di 5,3, sotto la soglia di probabilità fissata dalla prima ricerca.