Spingere lo sguardo sempre più avanti, arrivando a scrutare gli albori del nostro Universo, nelle ere in cui andavano formandosi le prime stelle e galassie. È la continua sfida degli astronomi (“Perché andare sempre più lontano”) che hanno fatto un altro passo in avanti. O meglio, indietro nel tempo. L’identificazione di una galassia che, se confermata, sarà la più distante finora scoperta, a ben 13,2 miliardi di anni luce da noi. Questo vuol dire che la luce della galassia analizzata oggi è stata prodotta quando l’Universo aveva solo 500 milioni di anni.
A catturare questi flebili segnali è stato il telescopio spaziale Hubble, che con una serie di osservazioni nell’infrarosso durate complessivamente 87 ore è riuscito a spingere la Wide Field Camera 3, installata nell’ultima missione Shuttle di riparazione avvenuta nel maggio del 2009, davvero ai limiti delle sua capacità osservative.
“Stiamo quasi per osservare le prime galassie nell’Universo, che riteniamo si siano formate tra i 200 e i 300 milioni di anni dopo il Big Bang”, dice Garth Illingworth, della University of California, Santa Cruz, che insieme a Richard Bouwens ha guidato lo studio pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature. “Grazie a queste riprese registriamo un frenetico processo di formazione galattica nell’universo primordiale e possiamo così disporre di informazioni utili per affinare i modelli teorici sulla formazione delle galassie”.
C’è ancora molto lavoro da fare per avere una prova inconfutabile dell’identificazione di questa galassia, tanto che gli stessi autori lasciano un margine di incertezza del 20% sulla validità dei loro risultati. E questo perché non si poteva proprio chiedere di più alla strumentazione di Hubble. Ma se la scoperta venisse confermata, sarebbe un nuovo record per l’astronomia, dopo il recente studio tutto italiano relativo alle prime galassie nell’Universo. Con ricadute rilevanti. La galassia sarebbe stata infatti osservata nel pieno della cosiddetta “era della re-ionizzazione”, quando cioè un immane flusso di radiazione ultravioletta strappò elettroni agli atomi di idrogeno che pervadevano l’Universo primordiale, ionizzandoli com’erano in origine, dopo il Big Bang e di fatto permettendo alla radiazione luminosa di stelle e galassie di riuscire a giungere fino a noi.
“Il punto cruciale per chi studia oggetti celesti così lontani è capire cosa abbia prodotto questo processo che ha reso trasparente l’Universo” sottolinea Giovanni Cresci, dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri. “Gli stessi autori, sottolineando che i risultati del loro lavoro sono ancora molto incerti, ritengono che le galassie primordiali possono aver contribuito solo per il 12% alla radiazione necessaria per completare il processo di re-ionizzazione”.
Cos’altro si nasconde dunque dietro le nebbie dell’Universo primordiale? E chi può essere stato l’enigmatico “motore” che ha permesso di schiarirle? È ancora troppo presto per dirlo. Ma gli astronomi confidano nei prossimi anni di poter dare una risposta definitiva a questi interrogativi, sfruttando la potenza e la tecnologia del nuovo telescopio spaziale James Webb (JWST), il successore di Hubble, che i più ottimisti ritengono possa essere lanciato già entro il 2015.
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