SPECIALE RICADUTE TECNOLOGICHE

Un tagliando per lo spazio

Si chiamano “test di burn-in e compatibilità termica a range esteso”. Sono prove di collaudo estreme per i circuiti elettronici e la strumentazione a bordo dei satelliti. E si possono affrontare nei laboratori dell’INAF-IASF di Roma. Per arrivare in orbita senza brutte sorprese.

     06/05/2011

La facility per i test di burn-in allo IASF di Roma

I componenti per i satelliti, loro, li progettano, li realizzano e a volte… li distruggono. Succede nei laboratori dell’INAF-IASF di Roma, all’Area della ricerca di Tor Vergata. Ma niente paura, qui l’autolesionismo non c’entra, il rischio è tutto calcolato. Le condizioni ostili ricreate nella facility per i test di burn-in e compatibilità termica a range esteso – dove tensioni, correnti e temperature vengono spinte a soglie a volte insostenibili per i poveri circuiti elettronici che ci finiscono dentro – hanno infatti uno scopo ben preciso: sottoporre i dispositivi in procinto di lasciare la Terra a un rodaggio, appunto, spaziale. Solo quelli che ne escono indenni ottengono il via libera, l’ambito diploma di space qualified, ovvero “qualificati per lo spazio”. Il motivo è presto spiegato: una volta lassù, riparare un componente difettoso implicherebbe, nei migliori dei casi, un intervento a costi proibitivi. Se non proprio impossibile. Dunque, meglio evitare sorprese: se deve andare in tilt, meglio che lo faccia prima, qui a terra, sotto l’occhio attento di tecnici e ricercatori.

Ma cosa accade, a un circuito elettronico, quando viene sottoposto a stress? Iniziano a presentarsi cali di performance e guasti: molti all’inizio, sempre meno mano a mano che il tempo passa, secondo un andamento che gli addetti ai lavori chiamano bathtub curve, curva a vasca da bagno. Lo sa bene Alda Rubini, dell’INAF IASF di Roma: in vent’anni di campagne di misura, in quanto coordinatrice del gruppo che si occupa di questi test, di condensatori e circuiti integrati cadere sul campo ne ha visti parecchi. «La prova più temuta? Ovviamente la temperatura. Perché, soprattutto per i componenti commerciali, il massimo è 80 gradi: un limite che nelle nostre apparecchiature potrebbe venir superato. I componenti più delicati, invece, sono di solito quelli analogici, perché su di essi le temperature elevate possono avere un effetto di rottura dei collegamenti interni. Ma si tratta di problemi risolvibili. L’importante», sottolinea Rubini, «è individuare il componente che si guasta, così da poter modificare la progettazione, o introdurre dei raffreddatori».

Rispetto a processi di certificazione analoghi, la facility dello IASF di Roma – nella quale sono coinvolti anche i ricercatori INAF dello IASF di Bologna, dell’Osservatorio di Capodimonte (NA) e della sede centrale, insieme al personale dell’ISC-CNR di Roma – permette una riduzione dei costi fino al 60%. E i risultati dei test sono disponibili in tempi molto minori. Tutto grazie all’elasticità della strumentazione e alla competenza acquisita negli anni, su numerose missioni spaziali, dal personale del laboratorio. Competenza della quale vanno giustamente orgogliosi: «In ogni esperimento in cui siamo stati coinvolti», spiega Rubini, «abbiamo cercato di acquisire, allestire e migliorare, nei nostri laboratori, apparecchiature che ci permettessero di eseguire i test richiesti dalle agenzie spaziali (ESA, NASA). E di produrre la documentazione relativa. Così ora siamo in grado di progettare apparati elettronici e vari tipi di detector (scintillatori, polarimetri fotoelettrici e a scattering, con chip a strip e a drift di silicio), di realizzare le parti meccaniche e di sviluppare il relativo software, sia di simulazione che per l’analisi dati».

La lista dei satelliti i cui componenti sono passati al vaglio di questa facility è lunga, un vero e proprio album di famiglia dei più importanti esperimenti spaziali per le alte energie degli ultimi decenni. «Abbiamo iniziato con Figaro, poi abbiamo fatto SAX, SXRP, JEM-X per INTEGRAL, vari tipi di polarimetri, SuperAGILE e, più di recente, una serie di test per LOFT», elenca Rubini. «Ma il tipo di prove che possiamo mettere a punto non vale solo per le apparecchiature spaziali: servono anche per le apparecchiature da terra. Dispositivi biomedicali, per esempio, o automobilistici. O anche per telescopi terrestri, come VST. Perché è un tipo di test che va fatto comunque. In passato ci ha contattato persino la Fiat Ricerche, per test su apparecchiature automobilistiche, ma la collaborazione non è potuta andare avanti per una questione di regolamenti: quelli dell’epoca non prevedevano questo tipo di scambio».

Per saperne di più: