Poi dicono che andare sulla Luna non serve. Sarà, ma a 40 anni di distanza, il raccolto delle ultime missioni Apollo – 381.7 kg fra rocce e altri campioni di suolo lunare – continua a stupirci. E a rivelarsi un autentico forziere pieno d’oro. Oro blu. Analizzando alcune “inclusioni” di origine vulcanica (melt inclusions), frammenti di magma intrappolati in minuscoli chicchi di cristallo giunti sulla Terra grazie agli astronauti della missione Apollo 17, un team di geologi guidato da Erik Hauri della Carnegie Institution for Science ha infatti scoperto che contengono acqua in quantità: cento volte più di quanto si pensasse.
«Già dal 2008», ricorda Alberto Saal, della Brown University, fra gli autori della ricerca, «avevamo il sospetto che nel magma lunare l’acqua fosse presente in quantità analoga a quella che si riscontra nella lava proveniente dal mantello terrestre. Ora ne abbiamo la prova».
Intendiamoci, questa scoperta non significa che sulla superficie del nostro satellite possa all’improvviso iniziare a sgorgare acqua, o che potremo mai farci una nuotata nell’aridissimo Mare Tranquillitatis. Il prezioso liquido c’è, d’accordo, ma se ne sta ben protetto e incapsulato nel sottosuolo. Per la precisione, nel mantello lunare. E l’importanza della scoperta, almeno al momento, sta soprattutto nelle implicazioni che può avere sulle ipotesi circa la formazione della Luna e l’origine dell’acqua ghiacciata ai poli lunari. Ghiaccio che si pensava portato lì da comete e meteoriti, ma che ora potrebbe rivelarsi almeno in parte derivante dall’acqua fuoriuscita durante le eruzioni di magma lunare.
Il rabdomante è un laureando
Un ruolo determinante, in questa caccia all’acqua lunare, lo ha avuto un giovane laureando della Brown University, Thomas Weinreich. È stato infatti lui a individuare i dieci grani contenenti le preziose melt inclusion, avvolte in involucri di cristallo che hanno permesso all’acqua e ad altre sostanze volatili di non disperdersi durante le eruzioni. «L’aspetto è quello di campioni trasparenti, con qualche macchiolina nera qua e là», dice ora con modestia, come se per riconoscerle bastasse un colpo d’occhio. In realtà, gli ci è voluta una pazienza certosina – e l’ausilio dello spettrometro di massa di ioni secondari NanoSIMS 50L – per passare al vaglio le migliaia di palline arancioni, composte da un materiale simile al vetro, raccolte durante la sua passeggiata lunare del 12 dicembre 1972 dall’astronauta Harrison Schmitt.
«L’acqua ricopre un ruolo fondamentale nel determinare il comportamento tettonico delle superfici planetarie, il punto di fusione dell’interno dei pianeti, la modalità d’eruzione e la posizione dei vulcani planetari. Non possiamo dunque nemmeno immaginare», sottolinea Erik Hauri, primo autore della ricerca, «una tipologia di reperti più importante da riportare a Terra di questi campioni di vetro eruttati da attività di vulcanesimo esplosivo, rilevati non solo sulla Luna ma anche nell’intero Sistema solare interno».