A furia d’inseguire gli eventi astronomici più violenti e mediatici, può capitare di dare per scontato che la morte d’una stella finisca sempre con quel botto spettacolare che va sotto il nome di supernova. Ma non è così, anzi: nella maggior parte dei casi, il funerale d’una stella è una cerimonia all’insegna della riservatezza. Non per questo, però, l’esito è meno interessante. E anche dal punto di vista strettamente estetico, la fine d’una stella di dimensioni ordinarie, come può essere il nostro Sole, non ha nulla da invidiare al fuoco d’artificio che segna la dipartita delle sue sorelle maggiori. Ciò che le stelle medio-grandi si lasciano alle spalle nelle ultime fasi della loro vita, infatti, sono oggetti che, oltre a dare – con tutti gli elementi pesanti che contengono – un contributo cruciale alla “biodiversità” del cosmo, hanno sovente un aspetto incantevole: le nebulose planetarie. Oggetti come quello presentato lunedì scorso a Puerto de la Cruz, sull’isola di Tenerife, durante la giornata inaugurale del convegno “Planetary Nebulae: an Eye to the Future”.
La scoperta è di un astrofilo austriaco
In onore del suo scopritore, la nebulosa è stata battezzata Kronberger 61 (o Kn 61). A scorgerne le tracce, nascoste fra i dati raccolti nella Digital Sky Survey (DSS), è stato infatti l’astrofilo austriaco Matthias Kronberger. Di giorno fisico delle alte energie al CERN di Ginevra, al calar del sole Matthias smette il camice da laboratorio per indossare le vesti di “cacciatore del cielo profondo”: è infatti membro d’un club d’appassionati chiamato Deep Sky Hunters. E poiché, almeno nel campo delle nebulose, non c’è praticamente differenza fra le tecniche di rilevazione utilizzate da chi il cielo lo studia per diletto rispetto a chi ne ha fatto una professione, il lavoro di squadra fra i due si è rivelato estremamente proficuo.
«Un vero e proprio match made in heaven, come si dice in inglese, un matrimonio divino, quello fra noi e il gruppo dei Deep Sky Hunters», dice Orsola De Marco, l’astrofisica della Macquarie University di Sydney che, insieme a George Jacoby del Giant Magellan Telescope e a Steve Howell, deputy project scientist del telescopio spaziale Kepler, sta studiando le nebulose planetarie all’interno del campo di vista di Kepler. «Hanno lavorato su fotografie del cielo ottenute molti anni fa dall’osservatorio di Palomar, e in seguito scannerizzate e messe su Internet, a disposizione di tutti. Grazie ai metodi d’analisi che hanno sviluppato, molto sofisticati, riescono a individuare in queste fotografie anche le più piccole imperfezioni. Oggetti minuscoli, che a volte possono essere semplicemente difetti dell’immagine. Però, ogni tanto, a una successiva verifica con un telescopio professionale, possono rivelarsi oggetti reali. Così, quando io, George Jacoby e Steve Howell abbiamo cominciato il nostro progetto di ricerca sul campo di Kepler, il gruppo dei Deep Sky Hunters ci ha aiutato, intensificando le osservazioni proprio in quella porzione di cielo. Risultato: da una o due nebulose la cui presenza in quel campo era già nota, siamo già passati a sei, e forse cresceranno ancora».
A caccia d’un compagno
Il campo di cui parla De Marco è una piccola porzione di cielo, circa 105 gradi quadrati (grosso modo, l’area occupata da una mano quando si tiene il braccio teso), situata nei pressi della costellazione del Cigno. È la “finestra sull’universo” di Kepler, l’osservatorio spaziale della NASA messo in orbita nel 2009 per cercare pianeti extrasolari. Vero e proprio cacciatore d’altri mondi, Kepler ha un occhio sensibilissimo alle più impercettibili variazioni di luminosità. Ma con le nebulose planetarie, che c’entra?
«Un aspetto interessante delle nebulose planetarie», spiega De Marco, «è che, nella maggior parte dei casi, non sono rotonde: è molto più facile che siano ellittiche, o bipolari, come delle clessidre. E presentano dei jet, delle bolle. Ora, queste strutture sarebbero difficili da spiegare attraverso il processo d’evoluzione d’una stella singola. Al momento, la spiegazione più plausibile è che le stelline che le originano, quando stanno per morire, vengano influenzate da un “compagno”: un’altra stella che orbita lì attorno, o addirittura dal sistema planetario della stella stessa. Dunque, grazie agli “occhi” estremamente sensibili di Kepler, in grado di percepire cambiamenti luminosi minimi, potremo verificare se, in effetti, le nebulose presenti nel suo campo di vista, come appunto Kronberger 61, hanno un compagno».
Per saperne di più:
- Ascolta l’intera intervista a Orsola De Marco, da Sydney
- Leggi la press release del Gemini Observatory
- Leggi la news sul sito di Kepler