Non è WALL•E, ma ci va parecchio vicino. Come il simpatico robot-spazzino della Pixar, l’oggetto abbozzato in “Active space debris removal: A preliminary mission analysis” – uno studio in corso di pubblicazione e già uscito on-line sul sito di Acta Astronautica – avrebbe il compito di agganciare rifiuti tecnologici per poi sbarazzarsene. Rifiuti davvero speciali: lo space debris, ovvero l’immondizia spaziale in orbita a migliaia di chilometri all’ora attorno al nostro pianeta. A metterlo nero su bianco, con tanto di conti e schemi progettuali, è stato Marco Castronuovo, ricercatore presso l’Unità per l’esplorazione e l’osservazione dell’Universo dell’Agenzia Spaziale Italiana.
Il principio di funzionamento è genialmente semplice, anche se realizzarlo sarà tutto un altro paio di maniche. «I satelliti, una volta in orbita», spiega Castronuovo, «compiono un’azione di docking – di avvicinamento e aggancio – con gli oggetti da rimuovere, i detriti, mediante un braccio robotico. Successivamente, installano sui detriti dei piccoli razzi a stato solido, i detriti vengono nuovamente sganciati e i razzi attivati. Con la loro spinta, quindi, i razzi dirigerebbero i detriti verso orbite più basse, tali da garantire il rientro in atmosfera e quindi la completa distruzione dei detriti stessi in tempi relativamente brevi». Inceneriti durante la discesa, insomma.
A missione compiuta, i satelliti-spazzini, grazie a motori elettrici a ioni, si potranno dirigere verso nuovi obiettivi. A un ritmo di 5 detriti rimossi all’anno (questa l’ipotesi dello studio, ed è il motivo per cui di netturbini spaziali ne occorrerebbe un’intera flotta), ognuno di questi satelliti – la cui vita media è stimabile attorno ai 7 anni – sarebbe in grado di far piazza pulita di 35 oggetti. Per poi, ovviamente, autodisintegrarsi senza lasciare traccia.
L’impresa, complicata di suo, è resa ancora più difficile dal fatto che i detriti in questione sono “oggetti non cooperativi”, come sottolinea Castronuovo, che per di più viaggiano a velocità terrificanti, attorno ai 7-8 chilometri al secondo. D’altronde, il problema dello space debris si fa sempre più delicato, soprattutto per particolari orbite. «I rifiuti in orbita attorno alla Terra, almeno quelli catalogati, sono più di 15mila. Si concentrano nelle zone dove l’attività spaziale è più intensa e più interessante dal punto di vista delle applicazioni: le orbite per l’osservazione della Terra, in particolare le orbite eliosincrone, attorno ai 700-800 chilometri», dice Castronuovo. E fra gli episodi “d’imbrattamento” o di emergenza recenti ne cita due: il test cinese di un’arma spaziale, che ha disintegrato un satellite provocando un’enorme quantità di rifiuti, e la collisione avvenuta nel 2009 fra un satellite Iridium e un satellite russo, generando anche in questo caso space debris a volontà.
Fra tutti i rifiuti orbitanti, lo studio si concentra su alcuni oggetti particolari, potenzialmente in grado – se colpiti – d’innescare una vera e propria reazione a catena che produrrebbe ulteriore space debris. «Sono i terzi e i quarti stadi dei razzi, che rimangono in orbita anche per molto tempo dopo il loro utilizzo. Offrendo una grande superficie, possono essere oggetto d’impatto da parte di detriti già in orbita, rendendosi così a loro volta possibili sorgenti di nuovi detriti spaziali».
Per quanto si tratti solo di uno studio preliminare, un pezzo fondamentale è però già pronto, nei laboratori della DLR, l’Agenzia spaziale tedesca (fra gli sponsor del progetto di Castronuovo). Ed è il pezzo che più fa pensare al piccolo WALL•E: il braccio robotico.
Per saperne di più:
- Ascolta l’intervista a Marco Castronuovo
- Leggi l’articolo “Active space debris removal: A preliminary mission analysis”