CLUSTER NE MISURA LO SPESSORE: 17KM

Sulla cresta dell’onda d’urto

S’incontrano ovunque, nell’Universo. E hanno un ruolo cruciale negli acceleratori di particelle naturali, spingendo i raggi cosmici a velocità prossime a quella della luce. Sono le onde d’urto. Ora uno studio in uscita su Physical Review Letters ne chiarisce il funzionamento.

     17/11/2011

I quattro satelliti CLUSTER incrociano il bow shock terrestre. Crediti: ESA/AOES Medialab

Una domenica shock, quella del 9 gennaio 2005. E non tanto per il finale rocambolesco di Inter-Samp (rimonta da fantascienza, con tre gol in sei minuti), quanto piuttosto per CLUSTER, la squadra di quattro satelliti dell’Agenzia Spaziale Europea progettati per lo studio del vento solare. Erano al lavoro come al solito nella loro orbita operativa, là fra i 19mila e i 119mila chilometri, quando si sono ritrovati, tutti insieme e tutt’e quattro perfettamente allineati con il campo magnetico terrestre, a incrociare il bow shock: quella zona di confine, a circa 90mila km d’altezza, dove il vento solare, entrando in contatto con la magnetopausa, subisce un brusco arresto. La velocità delle sue particelle crolla improvvisamente, la pressione s’impenna, e si genera un’onda d’urto – una shock wave, appunto – analoga al “bang” prodotto da un jet quando supera la barriera del suono.

Un fenomeno estremo, che le quattro sonde ESA – in quest’occasione, è proprio il caso di dirlo, i satelliti giusti al posto giusto – hanno avuto la possibilità, grazie alla particolare configurazione in cui si trovavano, di studiare con una precisione senza precedenti. I risultati, ora in uscita su Physical Review Letters, sono di estrema importanza per comprendere i meccanismi naturali di accelerazione delle particelle. Così come avviene, benché a scala ridotta, all’interno di LHC, il Large Hadron Collider, anche gli acceleratori presenti in natura, per partire, hanno bisogno d’uno “spunto”. Al CERN, questo spunto viene fornito da una serie di piccoli acceleratori, cui spetta il compito di portare la velocità delle particelle fino a una certa soglia, così da poterle poi iniettare nel grande anello di 27 chilometri, dove verranno ulteriormente accelerate. Nello spazio invece, dove il ruolo di LHC viene ricoperto dai campi magnetici naturali, in grado di proiettare i raggi cosmici a velocità prossime a quelle della luce, lo spinta iniziale la possono fornire meccanismi come, appunto, le onde d’urto.

In particolare, le misure di CLUSTER hanno mostrato che gli elettroni subiscono un rapidissimo aumento di temperatura, ponendosi così in uno stato favorevole a un’accelerazione su scala maggiore. Da tempo gli scienziati ipotizzavano che le onde d’urto potessero avere quest’effetto, ma ciò che riusciva difficile stabilire, oltre ai dettagli del processo, era lo spessore del bow shock, la linea d’urto. Un parametro cruciale, poiché più è contenuto e più efficacemente le particelle vengono accelerate. «Ciò che abbiamo scoperto grazie a queste osservazioni», dice ora Steven J. Schwartz, dell’Imperial College di Londra, che ha guidato la ricerca, «è che lo spessore dello shock layer s’avvicina al limite minimo possibile». Ovvero, nel caso misurato dai 4 satelliti, circa 17 km: dunque un valore molto più basso e preciso di quanto suggerito dalle stime precedenti, che si limitavano a indicare, come spessore per le onde d’urto al di sopra dell’atmosfera terrestre, un’ampiezza attorno ai 100 km.

Misure a parte, è anche la prima volta che la regione d’accelerazione iniziale delle particelle viene osservata così in dettaglio. E questo è d’estremo interesse soprattutto per gli astrofisici, perché le onde d’urto s’incontrano ovunque un flusso di materia ad alta velocità venga frenato da un ostacolo, o da un altro flusso: per esempio, nei dintorni delle supernove, delle stelle più giovani, dei buchi neri e di intere galassie. E gli scienziati sospettano che ci siano proprio loro, le onde d’urto, all’origine dei raggi cosmici ad alta energia che permeano l’intero Universo.

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