DARPA, l’agenzia statunitense che si occupa dei progetti di ricerca avanzati nel campo della difesa, ha ideato una sorta di ‘raccolta differenziata’ per i satelliti non più operativi che si trovano in orbita geostazionaria, a 36.000 km attorno alla Terra. Con il programma Phoenix, infatti, l’agenzia sta studiando la possibilità di recuperare antenne e pannelli solari dai satelliti militari dismessi, per riutilizzarli come componenti di una serie di mini-satelliti economici. Un progetto tecnologicamente molto complesso, che vede l’utilizzo di una sonda robotizzata in grado di realizzare in loco questo patchwork spaziale.
Il primo problema è quello di identificare i satelliti da cui recuperare i pezzi, ottenendone una immagine la più precisa possibile. Le tecniche utilizzate attualmente per ottenere questo tipo di immagini sono di derivazione astronomica e si basano su interferometri a lunga base, ovvero due o più telescopi interconnessi tra loro in modo da produrre un’immagine con la risoluzione equivalente a quella di un telescopio grande quanto la distanza (base) che divide i singoli telescopi. Ma gli interferometri astronomici non sono ovviamente ottimizzati per un’applicazione di questo tipo, e il processo risulta attualmente lento e limitato.
Per superare questi limiti ed arrivare ad ottenere immagini degli oggetti in orbita geostazionaria in maniera molto più rapida e dettagliata di quanto sia possibile oggi, la DARPA ha quindi sviluppato un altro progetto, denominato Galileo. L’obbiettivo di questo progetto è di dimostrare la fattibilità di un interferometro semovente, costituito da telescopi ottici dei quali almeno uno sia collocato su una piattaforma mobile, capace di ottenere immagini con una risoluzione spaziale di 0.0005 secondi d’arco, tale da distinguere dettagli piccoli fino a 10 centimetri.
Per rendere quest’idea realizzabile, occorre che la luce raccolta dai singoli telescopi sia convogliata alla stazione interferometrica non attraverso i complessi e rigidi sistemi di specchi che sono attualmente utilizzati, ma mediante un fascio di fibre ottiche. Il che può sembrare banale, ma rappresenta invece una sfida tecnologica quasi insormontabile.
“L’utilizzo delle fibre ottiche per il trasporto dei segnali presenta vari problemi. Tra gli altri, le variazioni in lunghezza delle fibre dovute a cambiamenti di temperatura o stress meccanici, la possibilità -non desiderata- di polarizzare i segnali, la dispersione ottica del segnale nella fibra”, spiega Fabrizio Massi dell’INAF-Osservatorio di Arcetri. “Ottenere l’interferenza tra i segnali ottici o infrarossi raccolti da due telescopi richiede che questi due segnali siano trasportati fino allo strumento dove l’interferenza viene realizzata (detto beam combiner) lungo due ‘cammini ottici’ che non possono differire per più di qualche lunghezza d’onda. In pratica, occorrono precisioni di pochi micron su lunghezze che possono arrivare a qualche centinaio di metri”.
Il trasporto della luce attraverso fibre ottiche, come si è detto, consentirebbe l’utilizzo di telescopi movibili, facilmente e rapidamente ricollocabili. Questo permetterebbe di eseguire in breve tempo molte osservazioni da diversi punti di vista, fondamentali per ottenere le migliori immagini dei satelliti in orbita, scopo del progetto.
“Il progetto Galileo è molto ambizioso nel richiedere una configurazione strumentale maggiormente flessibile rispetto a un interferometro astronomico e presenta delle sfide tecnologiche non trascurabili”, commenta Massi. “D’altra parte, se dovesse avere successo potrebbe anche produrre ricadute interessanti per l’interferometria ottica astronomica”.