Poi dicono che l’universo, in laboratorio, non lo puoi ricreare. Be’, qui ci sono andati vicino. Volevano studiare i processi che si nascondono dietro alla formazione dei campi magnetici galattici. Il modello comunemente accettato prevede che si siano sviluppati per amplificazione, tramite processi dinamo e/o turbolenti, d’una sorta di piccoli “semi” presenti nell’universo primordiale. Fino ad arrivare alle dimensioni su larga scala oggi osservabili: i campi magnetici delle galassie, appunto.
Ma come metterlo alla prova, questo modello? Non soddisfatti dalle simulazioni, troppo dispendiose in termini di potenza di calcolo a causa della complessità e della non linearità dei fenomeni coinvolti, alcuni ricercatori hanno deciso di tornare all’approccio sperimentale. Tentando dunque di ricreare, seppur in miniatura, i “semi magnetici” iniziali postulati dal modello. Un po’ come nel famoso esperimento di Miller-Urey, quello condotto negli anni Cinquanta per mostrare come sia possibile produrre sostanze organiche a partire da un brodo primordiale di molecole più semplici. Ma se allora, per simulare i fulmini, fu sufficiente qualche scarica elettrica, in quest’occasione, per scolpire nel carbonio i semi dei campi magnetici, si è dovuto far ricorso alle maniere forti.
«Abbiamo condotto questi esperimenti presso il laboratorio LULI (Laboratoire pour l’Utilisation des Lasers Intenses), a Parigi, dove abbiamo usato laser molto potenti per generare onde d’urto non simmetriche. Onde d’urto simili a quelle che si hanno durante la formazione delle strutture nelle fasi iniziali dell’universo», spiega Gianluca Gregori, dell’Università di Oxford, primo autore dell’articolo appena pubblicato su Nature.
I laser presenti in facility come quella del LULI, o presso il Lawrence Livermore National Laboratory, sono i più potenti al mondo, progettati per innescare reazioni di fusione termonucleare, come quelle che avvengono nel Sole. Il team guidato da Gregori, invece, li ha usati per riscaldare carbonio a temperature molto elevate, nell’ordine di un centinaio di elettronvolt (dunque, circa un milione di gradi): temperature sufficienti a generare, attraverso l’espansione, un’onda d’urto asimmetrica. E quindi a produrre su piccola scala, tramite un effetto noto come “Biermann battery“, minuscoli semi di campi magnetici.
«Ciò che siamo riusciti così a dimostrare», continua Gregori, «è che uno dei processi considerati plausibili per la formazione dei campi magnetici nell’universo primordiale è compatibile con i dati nel nostro esperimento. Un risultato, dunque, che mostra quanto i metodi numerici utilizzati attualmente siano validi. Al tempo stesso, introduce un nuovo tipo di ricerca: in cui non c’è soltanto il computer, per rispondere a domande di interesse astrofisico, ma si può anche fare ricorso a veri e propri esperimenti».
Per saperne di più:
- Ascolta su Media INAF l’intera intervista a Gianluca Gregori
- Leggi su Nature l’articolo “Generation of scaled protogalactic seed magnetic fields in laser-produced shock waves”, di G. Gregori et al.
- Vai alla pagina web del Laboratorio di astrofisica con i laser ad alta potenza del NIF, la National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Laboratory.