Il mio primo incontro con Ray Bradbury fu, credo, alle superiori. Un’insegnante particolarmente illuminata ci fece vedere Fahrenheit 451, il film di Truffaut. Ricordo che la storia mi colpì così tanto che quasi subito presi i soldi della mia paghetta e andai a comprarmi il libro. Fu uno dei primi libri tutti miei, perché allora ancora mi appoggiavo quasi completamente alla libreria di mio padre e mia madre, che era vasta, ma non contemplava quello specifico volume. Non avevo molti soldi, e l’acquisto di un libro era sempre un po’ un evento. Fahrenheit 451 lo ricordo bene, è ancora nella mia libreria: 21 maggio 1997, dice la mia calligrafia di adolescente. Ricordo al tatto la copertina ruvida, bianca e rossa, con la foto di un’opera di Burri, le pagine bianchissime, fitte, con un carattere che avevo imparato a riconoscere, che avevano tutti gli Oscar Mondadori, all’epoca.
Fu il mio primo contatto con la fantascienza distopica, e mi piacque moltissimo, perché mi sembrava parlasse di me. Adoravo leggere, per me era un bisogno essenziale come mangiare, e tutto sommato anch’io ero una specie di “ragazza-libro”, o aspiravo a diventarlo. Fahreneit 451 da questo punto di vista era per me un manifesto, il simbolo di ciò che amavo, che volevo essere.
La mia strada incrociò di nuovo quella di Bradbury molto più tardi, quando ormai ero già passata dall’altra parte della barricata e scrivevo libri per mestiere. Mi venne proposto di intervistarlo, in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro, Addio all’Estate. Per me rappresentava una specie di mito, qualcosa di immortale e inavvicinabile. Lessi il manoscritto in inglese, mi preparai psicologicamente, per quanto si possa farlo, quando ci viene chiesto di confrontarci con qualcuno di così grande, ed ero ad un passo dal fare la fatidica chiamata al di là dell’oceano, perché ci saremmo sentiti per telefono. Poi semplicemente la giornalista che mi aveva fatto la proposta cambiò idea, forse anche perché mi sentì molto insicura e un bel po’ spaventata, e non se ne fece niente. Ma mi restò addosso qualcosa, di quell’intervista mancata. Il sapore di quel manoscritto che avevo letto in fogli sparsi, in inglese, il racconto lucidissimo – e incredibilmente vivo – di un’uomo di ottantasei anni che parlava di gioventù e vecchiaia, di chi si affaccia alla vita e chi sta per dirle addio.
La notizia della sua morte, ieri, mi ha presa in contropiede. È che la sua figura aveva qualcosa di eterno, proprio come le figure mitologiche. E adesso invece non c’è più. E tutti, certo, sentiamo un vuoto, un senso di perdita, quel che proviamo ogni volta che se ne va qualcuno che ci ha dato davvero qualcosa. Ma la cosa bella della scrittura è che resta. Ho qui, accanto a me, quella copia ingiallita di Fahrenheit 451, che adesso ha la bellezza di quindici anni. E mi parla esattamente come allora, mi parlerà sempre con la stessa voce, andrà oltre la mia libreria, non smetterà mai di parlare. Come una sua citazione che ho letto ieri, su Twitter, e che ho prontamente fatto mia: “Noi non siamo che copertine di libri, il cui solo significato è proteggerli dalla polvere”.
Addio, Ray, e grazie di tutto.
* ricercatrice allo IAPS-INAF di Roma è autrice di libri fantasy