Ci sono galassie che preferiscono non farsi vedere. Gli astronomi le chiamano galassie “oscure”, o addirittura “fantasma”. Due studi pubblicati in questi giorni, uno basato sulle immagini del telescopio spaziale Hubble e l’altro sui dati del Very Large Telescope dell’ESO, illustrano due tecniche per rivelare le galassie meno visibili, sia nei dintorni della nostra galassia che ai margini dell’Universo.
Cominciamo da quelle vicine. Per anni gli astronomi si sono lambiccati sul perché alcune galassie nane nei dintorni della nostra galassia, dall’emissione luminosa estremamente flebile, contengano così poche stelle. Si pensa che queste galassie siano tra gli oggetti più piccoli e antichi dell’Universo. Sono state scoperte nell’ultimo decennio passando al setaccio le immagini dello Sloan Digital Sky Survey. Un team internazionale di ricercatori, di cui fa parte Alvio Renzini dell’Osservatorio Astronomico di Padova, ha cercato di capire perché contengano così poche stelle, in uno studio appena uscito su The Astrophysical Journal Letters.
Le immagini di Hubble di tre di queste galassie, le galassie nane Hercules, Leo IV e Ursa Major parlano chiaro. “Abbiamo ricostruito dei diagrammi estremamente accurati dell’evoluzione di questi oggetti, che mostrano che tre le galassie hanno la stessa età, 13 miliardi di anni” spiega Renzini a Media Inaf. “Hanno tutte formato stelle in fase inziale e hanno smesso di colpo, per non farlo più in vita loro.
“Queste galassie sono tutte della stessa età, quindi è chiaro che qualcosa è calato su di loro come una ghigliottina, spegnendo la formazione stellare in tutte nello stesso momento”. Ha spiegato Tom Brown dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, leader dello studio.
La “ghigliottina” è stata probabilmente una fase della crescita dell’Universo chiamata reionizzazione. In questo periodo, circa un miliardo di anni dopo il Big Bang, la radiazione prodotta dalle prime stelle strappò via gli elettroni dagli atomi di idrogeno, ionizzando il gas di idrogeno nell’Universo. Le galassie più piccole, che non avevano abbastanza massa a proteggerle dalla violenta emissione ultravioletta che causò la reionizzazione, videro la propria riserva di gas strappata via, e si trovarono senza più materiale per fare nuove stelle.
“Poiché erano di massa molto piccola, erano più facilmente ‘evaporabili’ di altre galassie ben piùà massicce” chiarisce Renzini. “Avevano poche migliaia di masse solari in tutto, mentre un ammasso globulare ne ha circa 100 mila”.
La scoperta potrebbe spiegare il cosiddetto “problema della galassie satelliti mancanti”, per cui le galassie che orbitano attorno alla Via Lattea sembrano essere molto meno di quelle previste dalle simulazioni al computer. La spiegazione potrebbe essere appunto che, senza formazione di stelle al loro interno, molte di queste galassie restano virtualmente invisibili.
Passando a galassie più lontane, è simile il problema affrontato grazie all’utilizzo del VLT (Very Large Telescope) dell’ESO. Qui un’equipe internazionale di astronomi è riuscita ad individuare per la prima volta delle galassie oscure. Queste sono oggetti, previsti dalla teoria ma finora mai osservati, sono ricchi di gas ma praticamente privi di stelle, e sarebbero un passaggio iniziale della formazione delle galassie odierne.
Poichè sono prive di stelle, queste galassie oscure non emettono molta luce e ciò le rende molto difficili da individuare: “Il nostro approccio al problema della rivelazione di una galassia oscura è stato semplicemente quello di illuminarle con una lampada molto brillante – spiega Simon Lilly (ETH Zurigo, Svizzera) – Abbiamo cercato la luce fluorescente di un gas illuminato dalla luce ultravioletta di un quasar vicino e molto brillante. La luce del quasar fa splendere la galassia oscura attraverso un processo simile a quello per cui i vestiti bianchi si illuminano grazie alle lampade ultraviolette nelle sale da ballo”.
Il quasar, secondo gli studiosi, non è altro che una galassia molto brillante, grande e lontana la cui sopravvivenza trae alimentazione da buchi neri massicci nel nucleo. E’ grazie soprattutto a quest’oggetto, che è stato possibile provare l’esistenza di queste importanti galassie oscure. Infatti, gli astronomi pensano che quest’ultime abbiano fornito la maggior parte del gas alle grandi galassie, formando in seguito le stelle che vediamo oggi: “Dopo molti anni di tentativi per rivelare l’emissione di fluorescenza dalle galassie oscure – ha detto Sebastiano Cantalupo dell’Università della California e primo autore della ricerca – i nostri risultati mostrano le potenzialità del nostro metodo per scoprire e studiare questi oggetti affascinanti e finora invisibili”.
Durante lo studio, gli astronomi sono stati capaci anche di individuare alcune proprietà delle galassie oscure: la loro massa di gas sarebbe di circa un miliardo di volte quella del Sole, valore tipico per galassie di piccola massa e ricche di gas nell’Universo primordiale; inoltre sono stati in grado di stimare l’efficienza di formazione stellare, minore di un fattore superiore a 100, rispetto alle tipiche galassie che formano stelle in un’epoca cosmica equivalente: “Le nostre osservazioni con il VLT – ha concluso Cantalupo – hanno fornito la prova dell’esistenza di nubi oscure, compatte ed isolate. Con questo studio abbiamo fatto un passo avanti fondamentale verso la rivelazione e la comprensione dei primi stadi sconosciuti della formazione delle galassie e di come le galassie abbiano acquisito il loro gas”. Lo studio di Cantalupo e colleghi apparirà sul prossimo numero di Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.