Volevano mettere le mani sulla pietra proibita. Pur di realizzare il loro sogno, si sono addentrati per 230 chilometri nella zona più impervia della Russia orientale, quella Kamčatka che tutti conosciamo grazie al Risiko. Orsi da tutte le parti, zanzare a tonnellate, il centro abitato più vicino a 600 chilometri. Si sono procacciati il cibo direttamente sul campo, guadando torrenti di cui non conoscevano nemmeno la profondità con due enormi mezzi cingolati. A bordo, oltre ai due autisti, il team scientifico più improbabile che si possa immaginare: fisici teorici, astrofisici, un geologo (il fiorentino Luca Bindi) e un cuoco. Già, perché quando, per due settimane, trote e salmoni pescati sul posto sono l’unica fonte di sostentamento sulla quale puoi contare, avere in squadra un professionista dei fornelli può fare la differenza.
Ma alla fine ce l’hanno fatta. E di pietre proibite ne hanno riportate a casa sette. Sette microscopici chicchi estratti setacciando a mano una tonnellata e mezzo d’argilla. Sette cristalli che a stento possono essere definititi tali, perché la loro struttura, ingrandita al microscopio, mostra una firma che la natura, qui sul pianeta Terra, non avrebbe mai saputo apporre: una struttura perfettamente ordinata, come si conviene a un cristallo, ma non periodica. La firma inequivocabile dei quasicristalli.
Il pattern dei quasicristalli, a dire il vero, è noto da secoli. Lo si ritrova per esempio nella disposizione dei tasselli dei mosaici della moschea di Isfahan, in Iran. Ed è da trent’anni che i quasicristalli vengono sintetizzati in laboratorio, da quando nel 1982 lo scienziato israeliano Dan Shechtman riuscì a osservarne la struttura microscopio elettronico, scoperta che gli è valsa nel 2011 il Nobel per la chimica. Ma in una roccia d’origine naturale, quella struttura, non si era vista mai. Se non fino al 2009, quando in mezzo alle collezioni del Museo di Storia Naturale di Firenze viene rinvenuto un esemplare, il campione 46407/G, al cui interno è presente l’icosaedrite: un quasicristallo naturale composto di alluminio, rame e ferro – formula chimica Al63Cu24Fe13 – la cui natura di minerale è stata ufficialmente riconosciuta solo nel 2010.
Da dove viene? Come c’è finito, lì sulle rive dell’Arno? È proprio percorrendo a ritroso le tracce di quella roccia che il professor Luca Bindi, dell’Università di Firenze, insieme al collega Paul J. Steinhardt, agli altri membri della spedizione e a Valery Kryachko (la persona che nel lontano 1979 raccolse da terra quell’esemplare unico al mondo), finiscono per ritrovarsi nel 2011 in Chukotka, luogo del ritrovamento iniziale. Per portare a termine una missione estrema e dal sapore d’altri tempi, descritta in dettaglio nel numero odierno di Reports on Progress in Physics e raccontata con passione nell’intervista che Luca Bindi ha rilasciato a Media INAF.
Spirito d’avventura e tenacia sono state premiate. Successive analisi di laboratorio, infatti, e in particolare la misura dell’abbondanza relativa di alcuni isotopi dell’ossigeno, hanno confermato che anche i sette micrograni recuperati nel corso della spedizione, come già il campione del museo fiorentino, hanno sì origine naturale, ma non terrestre. A portarli sul nostro pianeta, un meteorite che colpì la Terra attorno a 15mila anni fa.
Per saperne di più:
- Ascolta l’intervista a Luca Bindi, con tutti i dettagli della spedizione e un elenco di applicazioni pratiche dei quasicristalli (ci costruiscono pure le pentole!)
- Leggi su Reports on Progress in Physics l’articolo “In search of natural quasicrystals“, di Paul J. Steinhardt e Luca Bindi
- Leggi su Media INAF l’articolo “Il quasicristallo venuto dallo spazio“