“Creare le condizioni perché le piante crescano in una ambiente chiuso è una sfida difficile se si parla di un ambiente come un veicolo spaziale o qualsiasi altro di tipo extraterrestre, soprattutto se pensiamo a lunghi periodi”. A spiegarlo è Federica Brandizzi, laureata in Biologia a Roma, all’Università di Tor Vergata, un BSc in Biologia e un PhD in Biologia Molecolare e Cellulare, attualmente insegna alla Michigan State University ed è al suo secondo Grant sullo studio delle piante in ambiente di microgravità. O meglio la NASA, che le ha attribuito il Grant, è interessata ai suoi studi perché le piante e, quindi, anche l’uomo, si adattino meglio alle difficili condizioni della vita fuori dall’atmosfera terrestre.
“In questi ambienti le piante possono essere sottoposte ad un forte stress indotto da numerosi fattori, come il cambio di gravità – spiega Federica – le radiazioni, le vibrazioni, o la limitata presenza degli elementi ottimali perché possano crescere, come la luce, la temperatura, i nutrienti. Tutto questo è spesso associato ad una riprogrammazione dei geni che può causare una limitazione nella crescita e nello sviluppo delle piante”.
Per facilitare la vita delle piante è allora necessario comprendere i cambiamenti genetici necessari perché queste possano “opporsi” allo stress a cui le sottopone il volo spaziale.
Attraverso una ricerca supportata dalla NASA “abbiamo identificato una proteina chiamata AtIRE1 come un importante regolatore trascrizionale che mette le piante nella condizione di adattarsi allo stress abiotico e biotico e ai cambiamenti di gravità. Non sono ancora chiare le vie di segnalazione controllare da questa proteina, comprenderle meglio sarà un passo fondamentale per permettere alle piante di crescere anche in condizioni difficili come nello spazio”.
Per questo motivo Federica Brandizzi ha proposto alla NASA di mettere a confronto il comportamento della proteina AtIRE1 sia a Terra che nello spazio, per comprendere come questa funzioni nel processo di adattamento delle piante alle particolari condizioni a cui sono sottoposte.
Obiettivo generale della ricerca è, quindi, anche quello di contribuire alle strategie spaziali, in primis della NASA, legate alla permanenza umana di lungo periodo nello spazio. “Ci aspettiamo – conclude Federica – che i nostri risultati abbiano importanti implicazioni per la progettazione di soluzioni atte a permettere, anche agli astronauti, di saper gestire lo stress a cui è sottoposto il loro organismo nello spazio”.