Ha funzionato sì e no per 5 minuti, nel luglio dello scorso anno, l’High Resolution Coronal Imager, uno strumento per l’osservazione in ultravioletto della corona solare portato sopra l’atmosfera da un razzo e poco dopo ricaduto sulla superficie del nostro pianeta. Ma quei 5 minuti sono stati sufficienti a Jonathan Cirtain del Marshall Space Science Center della NASA e ai suoi colleghi per ottenere l’analisi in assoluto più dettagliata della corona solare che si sia mai vista: una risoluzione dell’ordine dei 100/150 km, quando le immagini più accurate disponibili finora arrivavano sì e no a 900 km. Che cosa si veda in quelle immagini, i ricercatori lo raccontano sul numero di questa settimana di Nature.
Lo studio dà un altro contributo a risolvere il puzzle della corona solare: spiegare cioè da dove venga l’energia che la rende così calda e produce fenomeni violenti come i flares.
Ecco come illustra lo studio Alessandro Bemporad, dell’Osservatorio Astrofisico di Torino dell’INAF.
Come è noto, uno dei principali problemi ancora aperti della fisica solare è la spiegazione delle elevate temperature dell’atmosfera solare, la corona, il cui plasma raggiunge una temperatura di circa 1 milione di Kelvin, molto più alta della temperatura superficiale del Sole di circa 5800 Kelvin. Recentemente diversi articoli pubblicati su Science e Nature hanno ritenuto di aver identificato il meccanismo fisico responsabile di questo riscaldamento, ma la storia del problema del riscaldamento coronale è estremamente lunga. Limitandosi ai tempi recenti, ad inizio 2011 alcuni scienziati della Lockheed Martin Solar and Astrophysics Laboratory (LMSAL), NCAR e dell’Università di Oslo riteneva di aver dimostrato un collegamento tra il riscaldamento coronale e brevi getti di plasma riscaldato – detti spicole di tipo II – scoperti nel 2007. Tuttavia questa interpretazione non trovava l’accordo di tutta la comunità (si veda https://www.media.inaf.it/2011/01/11/corona-solare-commenti/) che restava comunque divisa su due possibili cause del riscaldamento coronale: la propagazione e dissipazione di onde magnetiche – dette onde di Alfvén – oppure la dissipazione dell’energia immagazzinata nel campo magnetico tramite il processo di riconnessione magnetica. Proprio pochi mesi dopo infatti una ricerca condotta da Fabio Reale dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Palermo dimostrava indirettamente l’esistenza dei nanobrillamenti, dovuti a riconnessioni magnetiche a piccole scale non risolte dagli attuali strumenti, mentre poco dopo un altro gruppo del National Center for Atmospheric Research (NCAR) riteneva di aver dimostrato che invece le onde di Alfvén sono oltre un centinaio di volte più intense di quanto precedentemente misurato e quindi in grado di riscaldare l’atmosfera esterna del Sole a milioni di gradi.
Queste recentissime opposte conferme dimostrano quanto il tema sia attualmente aperto e la ricerca pubblicata su Nature si inserisce appunto in questo dibattito. Uno dei limiti principali alla soluzione del problema è la nostra capacità strumentale di “risolvere” (ossia di distinguere nelle immagini astronomiche) le strutture a piccola scala che si dovrebbero osservare nelle diverse possibili interpretazioni del riscaldamento coronale. Per questo, l’11 luglio del 2012 un team scientifico guidato da J.W. Cirtain del Marshall Space Flight Center della NASA ha lanciato un razzo suborbitale per l’osservazione della corona solare ad una risoluzione spaziale mai raggiunta prima, pari a circa 150 km/pixel. Benché, data la durata del volo del razzo, le osservazioni siano durate circa solo 5 minuti, questo lavoro ha mostrato per la prima volta quanto la corona solare sia dinamica anche a scale dell’ordine dei 150 km. I ricercatori hanno in particolare dimostrato direttamente che il campo magnetico all’interno di una regione attiva ha una configurazione “intrecciata” molto più complessa di quanto si pensasse a queste scale spaziali ed hanno concluso che il rilascio per riconnessione dell’energia magnetica immagazzinata in queste configurazioni complesse potrebbe essere sufficiente per spiegare il riscaldamento coronale. Di nuovo è troppo presto per dire se questa scoperta potrà realmente mettere o no la parola “fine” al problema del riscaldamento coronale, ma questa ricerca mostra sicuramente quanto lo sviluppo di nuova strumentazione per l’osservazione del Sole, assieme all’analisi dei dati acquisiti ed allo sviluppo di modelli numerici più accurati, possa fornire ancora contributi fondamentali per la comprensione di processi base della fisica del plasma.