Da una decina di anni la qualità delle Università di tutto il mondo è misurata, controllata e classificata da un indice denominato ARWU – Academic Ranking of World Universities, realizzato dai ricercatori del Center for World-Class Universities of Shanghai Jiao Tong University (CWCU). Questo indice è ormai diventato uno standard universale e, in maniera complessiva, è in grado di misurare la qualità del corpo insegnante, il rapporto insegnante-studente sia in termini qualitativi che quantitativi, le pubblicazioni sulle riviste internazionali e il numero di citazioni ricevute, il numero degli studenti che, nel corso della loro carriera hanno ricevuto importanti riconoscimenti scientifici quali Premi Nobel o Fields Medals, fino a valutare le infrastrutture disponibili da un punto di vista di aule, laboratori, sistemi informatici, e così via.
La prima Università in assoluto, dall’inizio di questa rilevazione, è la Harvard University, fondata nel 1636 a Cambridge nel Massachusetts. La seconda è l’Università di Stanford, nell’area di San Francisco, in California, la terza è il mitico MIT (Massachusetts Institute of Technology), anch’esso a Cambridge nel Massachusetts. Poi c’è Berkeley, in California. Finalmente al quinto posto c’è un’Università europea: Cambridge in Gran Bretagna. Per trovarne un’altra che non sia americana bisogna scendere al decimo posto dove troviamo Oxford, sempre inglese. In mezzo a tutte bandierine americane, troviamo al ventesimo posto l’Università di Tokyo.
Nella classifica delle prime cento più importanti Università del mondo ce ne sono ben 53 statunitensi, nove del Regno Unito, cinque australiane, quattro giapponesi, quattro canadesi, quattro tedesche, quattro svizzere, tre francesi, tre israeliane e persino una finlandese, una svedese, una belga e una russa. Ma tra le prime cento Università del mondo non c’è nemmeno una Università italiana.
In questa classifica, a partire dalla centounesima in poi, il ranking è fatto per gruppi. Le prime Università italiane presenti sono quelle di Pisa e di Roma “La Sapienza” che sono nel gruppo 101-150; nel gruppo 151-200 compaiono le Università di Milano e di Padova, e così via. Tra le prime cinquecento Università del mondo compaiono solo una ventina di Università italiane, le altre sono fuori classifica. Quella di Bologna, che tutti ricordiamo come la più antica Università al mondo, fondata nel 1088, oltre novecento anni fa, è oggi nel gruppo 201-300.
La situazione di enorme difficoltà delle Università italiane si trascina da molti decenni, probabilmente almeno dalla Seconda Guerra Mondiale ma si è ulteriormente aggravata negli ultimi anni. Nell’ultimo decennio le immatricolazioni infatti sono calate di circa 50.000 unità, corrispondente al 17% del totale della popolazione universitaria italiana. E il calo ha colpito indistintamente tutto il territorio nazionale e la gran parte delle facoltà e atenei.
Siamo un Paese che sta gradualmente regredendo e allontanandosi dall’istruzione superiore universitaria. Il numero di laureati è ben distante dalla media Ocse, solo il 19% dei giovani nella fascia d’età 30-34 anni ha una laurea, contro una media europea che si attesta al 30%. Inoltre il 33,6% degli studenti è fuori corso e il 17,3% non consegue più esami. Con questi numeri l’Italia occupa, nel 2012, il penultimo posto in Europa, subito sopra la Turchia.
L’introduzione della cosiddetta laurea breve, pur migliorando lievemente le statistiche, si sta rivelando poco efficace alla prova del mercato del lavoro. Tra il 2002 e il 2010, infatti, il tasso di occupazione dei laureati è sceso dall’82,2% al 78,3%, un andamento in forte controtendenza rispetto all’Europa.
L’assenza di corsi universitari professionalizzanti e orientati al mercato (detti di “tipo-B”), che nell’Ocse rappresentano il 17% del totale dei laureati, rende evidente il grave ritardo dell’Italia nella capacità di gestire il rapporto istruzione-lavoro e la necessità di valorizzare la cultura tecnico-scientifica.
Il nostro sistema universitario è drammaticamente distante rispetto a quanto serve al sistema Paese. Viene prodotta una quantità sterminata di avvocati che, in Italia assommano ad un terzo di tutti gli avvocati esistenti nell’Unione Europea, e invece ci sono pochi ingegneri, fisici, chimici, matematici, statistici, biologi. Che le aziende italiane richiedono ma non riescono a trattenere e che, una volta laureati, preferiscono emigrare piuttosto che rimanere in Italia con stipendi molto al di sotto della media europea. Il fenomeno della “fuga dei cervelli” non è recente, si verifica da molte decine di anni, ma negli ultimi venti anni ha subito una forte accelerazione, soprattutto a causa dell’impossibilità dei giovani laureati di trovare un lavoro interessante, dignitoso e relativamente ben remunerato. Questo fenomeno è aggravato dal fatto che le nostre Università non sono per niente attrattive per gli stranieri e si contano sulle dita di una mano le opportunità offerte agli stranieri in Italia. Essendoci una limitata circolazione di cervelli nelle nostre Università è sempre più evidente il provincialismo cui il nostro Paese è destinato. Gli stimoli culturali innovativi richiedono un melting pot di studenti, professori e ricercatori che, provenendo da culture e ambienti diversi, favoriscono una contaminazione e creano nuove opportunità, iniziative, ricerche, sviluppi.
Un paio di anni fa un Ministro dell’Economia, per giustificare i tagli lineari che colpivano anche il sistema universitario italiano pronunciò una frase, rimasta tristemente famosa: “con la Cultura non si mangia”. In realtà le statistiche su scala mondiale dimostrano l’esatto contrario: i Paesi che hanno un più alto grado di istruzione media e investono maggiormente in un sistema universitario d’eccellenza, riescono ad avere più alti livelli occupazionali, un più elevato Prodotto Interno Lordo pro-capite, una migliore qualità complessiva della vita. A quella frase preferisco contrapporre la frase di Derek Bok, che è stato Presidente di Harvard University per oltre 25 anni, che qualche anno fa disse “se pensate che l’istruzione sia costosa, provate l’ignoranza”.
Ad un governo del nostro Paese dobbiamo chiedere più investimenti in una Università pubblica e libera, fortemente legata al merito, che sia in grado di indirizzare verso le discipline necessarie ad un importante rilancio produttivo.
Far ripartire l’Università è l’unico modo per far ripartire l’Italia.