Dai protagonisti più tenebrosi dell’intero universo, neri per antonomasia, potrebbe arrivare un aiuto per affrontare l’enigma della più oscura e abbondante delle sue componenti, la misteriosa dark energy. Detta così sembra uno scherzo, ma lo studio che illustra l’ipotesi – uscito qualche settimana fa su Physical Review Letters – è più serio che mai. Gli autori, dopo aver analizzato i dati d’un campione di 60 galassie di tipo Seyfert 1, sono giunti a concludere che la quantità di radiazione emessa dai loro buchi neri supermassicci, conoscendo la massa del buco nero stesso, può rivelarsi un indicatore affidabile per calcolarne la distanza. Se l’ipotesi sarà confermata, i buchi neri potrebbero aggiungersi al già nutrito insieme d’indizi utilizzati dagli astronomi per misurare l’accelerazione dell’espansione dell’universo, e dunque per studiare l’entità che ne sarebbe responsabile: l’energia oscura.
L’esistenza di un’energia oscura la cui azione spinge l’universo a espandersi sempre più veloce è a oggi supportata dalle osservazioni di tre classi di sorgenti. Partendo dalla più estesa, c’è anzitutto la mappa della radiazione cosmica di fondo a microonde (CMB): le misurazioni di WMAP e più recentemente quelle di Planck – rese pubbliche nel marzo scorso – del rapporto di densità fra le sue componenti indicano che l’energia oscura costituirebbe oltre 2/3 dell’universo. Stima con la quale concordano anche gli studi sulla distribuzione delle strutture a larga scala, principalmente gli ammassi di galassie, secondo indizio della presenza di energia oscura. Last but not least, le celebri supernove di tipo Ia, candele standard naturali la cui prevedibilità in termini d’emissione luminosa consente agli scienziati di calcolare il rapporto fra il loro redshift, ovvero la velocità alla quale si allontanano da noi, e la loro distanza. Un rapporto, questo, noto come costante di Hubble, parametro chiave per lo studio dell’energia oscura.
Ebbene, ciò che il gruppo di astrofisici guidato da Jian-Min Wang, dell’Accademia Cinese delle Scienze, ha scoperto è che, a comportarsi come candele standard, non ci sono solo le supernove Ia, ma anche una classe particolare di buchi neri. La sigla che li contraddistingue è SEAMBH, acronimo per Super-Eddington accreting massive black holes: buchi neri nei quali, spiega lo studio, la quantità di radiazione emessa dal processo di assorbimento del materiale circostante è proporzionale alla massa del buco nero stesso.
Poiché i procedimenti per stimare la massa di questi buchi neri sono ormai ampiamente collaudati, ciò che Jian-Min Wang e colleghi propongono è di inferire dalla massa la radiazione emessa, confrontandola poi con l’intensità della radiazione che osserviamo per calcolare la distanza del buco nero. Ottenendo così misure indipendenti da quelle derivate dal redshift, e dunque utili ai fini del calcolo dell’accelerazione dell’espansione dell’universo. Un metodo, insomma, in tutto e per tutto analogo e complementare a quello che ha portato alla ribalta le osservazioni delle supernove Ia, protagoniste del Nobel per la Fisica del 2011.
Per saperne di più:
- Leggi su Physical Review Letters l’articolo “Super-Eddington Accreting Massive Black Holes as Long-Lived Cosmological Standards“, di Jian-Min Wang, Pu Du, David Valls-Gabaud, Chen Hu e Hagai Netzer