L’ultima ipotesi, in ordine cronologico, risale a venerdì scorso. Ne scrivevamo proprio qui su Media INAF. E riguarda niente meno che la loro origine. A conferma di quanto questi oggetti celesti continuino, dopo che è trascorso ben mezzo secolo dalla loro scoperta, a rimanere enigmatici. Un’incertezza, quella che tutt’ora li avvolge, resa esplicita a partire dal nome: “quasar”. Con quel prefisso “quasi-” che sembra fatto apposta per meglio sottolinearne l’ambiguità, più che per definirli.
Abbiamo approfittato della presenza all’INAF di Padova, in questi giorni, di Jack Sulentic, professore emerito di astrofisica all’Università dell’Alabama a Tuscaloosa e profondo conoscitore di questi misteriosi oggetti, per cercare di fare il punto della situazione.
Professor Sulentic, che cos’è un quasar?
«L’aspetto è quello di una stella, una nana bianca. Ma nel 1963, quando se ne ottenne il primo spettro, si capì che non poteva in alcun modo trattarsi d’una stella: lo spettro era del tutto incompatibile. La cosa ironica è che i primi quasar vennero individuati perché emettevano onde radio (radio loud). Poi abbiamo scoperto che a farlo sono solo l’8%».
Perché dopo mezzo secolo continuiamo a chiamarli “quasi-stelle”?
«Quando furono scoperti, vennero battezzati “quasi-stellar-radio-sources”, poi abbreviato in quasars. Il termine ebbe successo, al punto da dare il nome, appena quattro anni più tardi, a un modello di televisore diffusissimo all’epoca. Gli astronomi adottarono la sigla “QSO’s”, ma ora anche loro preferiscono chiamarli semplicemente quasars».
Cosa li caratterizza, rispetto ad altre sorgenti celesti?
«Il fatto che sono al tempo stesso estremamente piccoli (appena qualche volta il Sistema solare) e molto energetici: fino a 1000 volte l’intera Via Lattea».
Qual è il loro posto nella storia dell’astronomia?
«Ci hanno costretto a cambiare le nostre idee di fondo sulle dimensioni e l’energia dell’universo. L’universo è assai più grande di quanto immaginassimo nel 1963, ed è pieno di nuclei galattici attivi che sono quasars: a oggi ne conosciamo circa 160mila».
Ma se ne conosciamo un numero così elevato, come mai ancora qualche mese fa l’astronomo Robert Antonucci scriveva, sulle pagine di Nature, che di queste potentissime sorgenti extragalattiche ci abbiamo capito ben poco? Lo abbiamo chiesto a Paola Marziani, astrofisica all’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova nonché curatrice, insieme a Mauro D’Onofrio e allo stesso Jack Sulentic, d’un volume uscito lo scorso anno per Springer, Fifty Years of Quasars.
«Attualmente si ritiene che l’enorme produzione di energia che rende i quasar tra gli oggetti più luminosi dell’universo sia dovuta a fenomeni d’accrescimento su un oggetto compatto. E quest’oggetto compatto è molto probabilmente un buco nero di massa che può andare da un milione ad alcuni miliardi di masse solari. Ma un aspetto che non è dimostrato», osserva Marziani, «è proprio la natura di questo oggetto compatto: ovvero se effettivamente sia un buco nero. La dimostrazione comporterebbe la rivelazione di un orizzonte degli eventi che, per i quasar, non è stata ancora effettuata».
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