Ad oggi è il più lontano ‘telescopio’ conosciuto che la natura ci ha messo a disposizione, ma non è fatto di vetro, specchi e ingranaggi. La sua lente è una galassia lontanissima, a 9.4 miliardi di anni luce da noi, cosicché la sua massa ha permesso di deflettere e amplificare la luce di un’altra galassia posta esattamente dietro di essa, come previsto dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein. A scovarla è stato un team internazionale di astronomi guidati da Arjen van der Wel del Max Planck Institute for Astronomy e a cui ha partecipato Andrea Grazian, ricercatore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma. E per riuscire a individuare questa galassia ci sono voluti due telescopi ‘artificiali’, questi sì fatti di vetro, specchi ingranaggi e moltissima elettronica, tra i più avanzati strumenti per l’esplorazione del cosmo finora costruiti dall’uomo: il telescopio binoculare LBT (Large Binocular Telescope) di cui l’INAF è uno dei partner, nonché telescopio spaziale Hubble.
La scoperta della galassia-lente è stata del tutto fortuita. Il team in realtà stava cercando oggetti molto massicci ed evoluti a distanze elevate nell’universo, nella porzione di cielo scansionata dal telescopio spaziale Hubble nell’ambito del progetto CANDELS. Gli oggetti candidati sono stati poi osservati con lo spettrografo LUCI (lo strumento multifunzione Large Binocular Telescope Near-infrared Utility with Camera and Integral Field Unit) al Large Binocular Telescope. È subito emerso dall’analisi dei dati che uno degli spettri non riproduceva le caratteristiche attese, in quanto risultava provenire da un oggetto celeste molto giovane e allo stesso tempo più distante delle altre galassie selezionate.
Così van der Wel e il suo team sono tornati a confrontare lo spettro sospetto con le immagini prodotte dal telescopio spaziale Hubble della stessa porzione di cielo, individuando che l’oggetto corrispondente era una galassia evoluta ma che presentava un anello di colore più blu, associato a galassie giovani in piena formazione stellare. Un indizio piuttosto chiaro che esattamente dietro quella galassia, perfettamente allineata lungo la nostra linea di vista, ci fosse un’altra galassia, la cui luce era stata deflessa e focalizzata per il fenomeno della lente gravitazionale. Combinando le immagini a disposizione e sottraendo il contributo luminoso all’immagine dovuto alle stelle della galassia in primo piano, è emersa la prova di quanto sospettato, ovvero il cosiddetto ‘Anello di Einstein’: una circonferenza luminosa, frutto della deflessione della luce della galassia remota da parte di quella più ‘vicina’. Le virgolette sono d’obbligo, poiché l’oggetto che ha svolto il ruolo di lente naturale è all’eccezionale distanza di 9.4 miliardi di anni luce e l’effetto è stato prodotto ad un’epoca in cui l’universo aveva meno di un terzo della sua età attuale. Una stima che rende questa galassia il più distante agglomerato di materia finora noto responsabile di un lensing gravitazionale.
Ma questa scoperta è preziosa per gli astronomi anche sotto un altro aspetto: l’intensità dell’effetto di lente gravitazionale è direttamente legato alla massa dell’oggetto celeste che funge da lente. Tanto maggiore è la massa della galassia, sia la parte di materia ordinaria che oscura, tanto più marcata è la deflessione della luce. “Questo fenomeno ci permette di stimare la massa della galassia ellittica studiando il suo effetto di distorsione gravitazionale” spiega Andrea Grazian, coautore dell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato oggi sul sito web della rivista The Astrophysical Journal Letters. “Possiamo così ‘calibrare’ gli altri metodi per la stima delle masse che vengono fatte per via indiretta, cioè confrontando la luce delle galassie distanti con le predizioni teoriche che sono tarate a loro volta per riprodurre le proprietà fisiche dalle galassie del nostro vicinato cosmico”. C’è poi un altro importante aspetto che questa scoperta solleva. “Le nostre conoscenze attuali indicano che questo tipo di allineamenti nell’universo primordiale sono molto rari” prosegue Grazian. “Il fatto di aver trovato questa particolare configurazione in una porzione molto piccola del cielo può indicare che gli oggetti cosmici che si trovano dietro le lenti gravitazionali sono molto più numerosi di quanto atteso e ciò può cambiare le conoscenze che abbiamo dell’universo primordiale. Nelle future indagini in questo campo LBT potrà continuare a giocare un ruolo determinante”.
Il comunicato stampa INAF
L’articolo Discovery of a Quadruple Lens in CANDELS with a Record Lens Redshift z=1.53 di A. van der Wel et al.