Non ci sono solo migliaia di vetrate ma anche parecchi record, a essere stati ridotti in frantumi dal meteorite caduto lo scorso febbraio in Russia: il più grande dopo quello di Tunguska del 1908, il più “paparazzato” di sempre e – con i tre articoli pubblicati oggi in contemporanea su Nature e Science – probabilmente anche il più studiato. La roccia in sé, a dire il vero, non ha nulla di speciale, anzi: gli esperti la classificano come “condrite ordinaria”, il tipo di meteoriti in assoluto più comune. Ma proprio questa sua ordinarietà dovrebbe metterci in guardia, notano gli scienziati. Se dovesse capitare in futuro un impatto catastrofico, a provocarlo sarà con buona probabilità un oggetto come quello caduto su Chelyabinsk, dice Qing-Zhu Yin di UC Davis, coautore dell’articolo uscito su Science. «E se l’umanità non vuole fare la fine dei dinosauri, dobbiamo studiare questo evento in dettaglio».
La buona notizia è che questa volta i dati non mancano, e provengono da una varietà di fonti e strumenti insolitamente ampia: rilevatori d’infrasuoni, sensori sismici, misure in banda visibile e infrarossa da satellite, analisi di laboratorio sui frammenti recuperati (il più grande, del peso di circa 650 kg, rinvenuto nemmeno un mese fa nelle acque del lago Chebarkul), informazioni raccolte “porta a porta” intervistando gli abitanti di una cinquantina dei villaggi coinvolti nell’evento e riprese video da oltre quattrocento telecamere amatoriali. L’identikit che affiora dalla lettura dei tre articoli – due quelli su Nature, uno quello su Science, che per l’occasione ne ha anticipato l’uscita online di un giorno – è nitido e ricco di dettagli. L’asteroide protagonista dell’impatto risulta essere una roccia antica 4,452 miliardi di anni, formatasi dunque circa 115 milioni di anni dopo la formazione del Sistema solare a seguito di quello che i ricercatori descrivono come un “evento traumatico significativo”. Al momento dell’ingresso in atmosfera – avvenuto con un angolo d’incidenza, rispetto all’orizzonte, di 18,3 gradi – la roccia viaggiava a circa 20 km/s (oltre 70mila chilometri all’ora).
Oggetti pericolosi, potrebbero essere dieci volte più numerosi del previsto
«Il nostro modello d’ingresso del meteoroide», spiega la prima autrice dello studio di Science, Olga Popova, dell’Accademia delle Scienze russa di Mosca, «mostra che l’impatto è stato provocato da un singolo blocco di roccia grande 20 metri». Il picco di luminosità si è registrato al momento dell’esplosione, avvenuta alle 03:20:32.2 ora universale del 15.02.2013, quando l’asteroide si trovava a 29,7 km d’altezza e viaggiava a 18.6 km/s. La deflagrazione ha evaporato circa tre quarti della roccia, generando per un attimo nel cielo un globo accecante di magnitudine apparente pari a -28: vale a dire, la luce di 30 soli. Una potenza, quella dell’esplosione, stimata fra i 500 e i 600 chilotoni (in realtà il margine d’incertezza è più elevato, circa un fattore due – ovvero dalla metà al doppio del valore indicato – a causa della carenza di dati di calibrazione, per energie così elevate, a quell’altitudine).
Confrontando questi dati con quanto previsto dai modelli attuali per la stima dei danni da esplosioni aeree, lo studio su Nature guidato da Peter Brown (University of Western Ontario, in Canada) rileva i limiti di questi ultimi. E suggerisce che occorra rivedere al rialzo il numero di oggetti – fra quelli con diametro nell’ordine delle decine di metri – in grado di rappresentare una minaccia: potrebbero essere dieci volte più numerosi di quanto stimato fino a oggi. Sempre da Nature, questa volta nella ricerca firmata da Jiří Borovička (Astronomical Institute of the Academy of Sciences della Repubblica Ceca) e colleghi, apprendiamo poi che, nel suo lungo viaggio verso il nostro pianeta, il pietrone caduto su Chelyabinsk forse non era solo: la sua orbita sembra quasi sovrapponibile a quella di un altro corpo celeste, l’asteroide 1999 NC43. Una somiglianza tale da far sorgere il sospetto che i due, in passato, facessero parte d’un unico oggetto.
Fenomeno su YouTube
Una ricostruzione dell’orbita del meteorite, questa del team guidato da Borovička, basata in gran parte sulle riprese video rese disponibili in rete. Video accuratamente citati nell’articolo, con tanto di nome utente e identificativo su YouTube, a testimonianza del ruolo fondamentale giocato in quest’occasione dal contributo dei cittadini, dalla disponibilità di riprese amatoriali e dalla loro condivisione in rete. Una particolarità, questa della copertura mediatica senza precedenti e del suo possibile utilizzo a scopo di ricerca, che Giovanni Valsecchi, esperto di meteoriti dello INAF-IAPS di Roma, interpellato da Media INAF ad appena poche ore dall’evento già aveva sottolineato.
«L’evento di Chelyabinsk», dice oggi Valsecchi commentando i risultati dei tre studi, «è destinato ad occupare un posto non meno importante di quello di Tunguska. Certo, le conseguenze di quest’ultimo sono state ben più spettacolari, e per di più furono all’epoca ammantate di un alone di mistero dovuto anche alla difficoltà, nei primi decenni del ventesimo secolo, di accertare cosa fosse successo veramente. Nel caso di Chelyabinsk, quanto ad abbondanza e qualità della documentazione disponibile siamo all’estremo opposto. E gli effetti positivi cominciano già a vedersi: siamo in grado di conoscere con precisione l’orbita che il piccolo asteroide aveva prima di cadere e sappiamo descrivere quantitativamente i fenomeni legati alla frammentazione ed alla liberazione di energia nell’atmosfera. I dati relativi all’evento di Chelyabinsk costituiranno per molto tempo un banco di prova insostituibile per la validazione dei modelli relativi agli impatti cosmici della classe del megaton».
Per saperne di più:
- Leggi su Science Express l’articolo “Chelyabinsk Airburst, Damage Assessment, Meteorite Recovery, and Characterization“, di Olga P. Popova et al.
- Leggi su Nature l’articolo “A 500-kiloton airburst over Chelyabinsk and an enhanced hazard from small impactors“, di P. G. Brown et al.
- Leggi su Nature l’articolo “The trajectory, structure and origin of the Chelyabinsk asteroidal impactor“, di Jiří Borovička et al.