Chi l’ha detto che le stelle si trovano sempre e solo all’interno delle galassie? Qua e là nell’universo possono verificarsi particolari situazioni in cui una piccola frazione di astri sfugge alle galassie e si trova a vagare nello spazio. Gli astronomi hanno imparato che le zone migliori dove cercare queste stelle ‘evase’ sono gli ammassi di galassie. Essi rappresentano le strutture cosmiche più importanti dove studiare le interazioni tra galassie, la cui alta concentrazione in un volume limitato rende molto più frequenti i loro incontri, determinandone spesso la deformazione o addirittura una parziale distruzione. Il risultato di questa intensa interazione gravitazionale è riscontrabile da un lato nella morfologia peculiare delle galassie al centro degli ammassi, dall’altro proprio nella presenza di stelle strappate fuori dalle loro galassie di appartenenza e sparpagliate diffusamente nella regione centrale degli ammassi.
Queste stelle intergalattiche producono una luce diffusa (che gli addetti ai lavori chiamano ICL, dall’inglese IntraCluster Light) ma assai elusiva, in quanto difficile da distinguere rispetto alla luce dominante proveniente dai vicini aloni galattici. Esistono pochi casi in cui tale luce è stata identificata e chiaramente separata da quella emessa dalle singole galassie dell’ammasso. La difficoltà consiste proprio nella necessità di ottenere immagini molto profonde e nella accuratezza con cui si riesce a sottrarre la luce delle galassie stesse.
Difficoltà che non ha certo impensierito il gruppo di ricercatori INAF dell’Ossservatorio Astronomico di Roma, i quali si sono messi alla caccia della ICL nell’ammasso galattico CL0024+17, un imponente agglomerato di galassie distante circa cinque miliardi di anni luce, che si trova in direzione della costellazione dei Pesci. Per questo hanno utilizzato la camera binoculare (LBC) posta al primo fuoco del Large Binocular Telescope (LBT), il grande telescopio (di cui l’INAF è uno dei partner) che scruta il cielo dalla cima del monte Graham in Arizona. LBC è uno strumento ideale per questo tipo di misura e sta fornendo informazioni preziose sulla presenza di tale luce diffusa in ammassi di galassie lontani, a miliardi di anni luce da noi. Il team tutto italiano, guidato da Emanuele Giallongo, è così riuscito, anche attraverso un complesso e accurato processo di sottrazione della radiazione luminosa proveniente dalle galassie, ad identificare e studiare la luce diffusa dell’ammasso. I risultati di questo lavoro sono stati recentemente pubblicati online in un articolo sulla rivista The Astrophysical Journal. “Grazie alla capacità straordinaria del telescopio LBT e della camera LBC è stato possibile ottenere immagini molto profonde e di ottima qualità ottica dell’ammasso oggetto del nostro studio” commenta Giallongo. “E’ stato così possibile mettere in relazione diretta la distribuzione spaziale della luce diffusa nell’ammasso con la distribuzione spaziale della materia oscura non barionica. Il profilo di materia oscura ottenuto è in straordinario accordo con quello derivato attraverso l’analisi dell’effetto di lente gravitazionale prodotto dall’ammasso stesso sulle galassie più distanti”.
Per saperne di più:
L’articolo Diffuse optical intracluster light as a measure of stellar tidal stripping: the cluster CL0024+17 at z∼0.4 observed at LBT di Emanuele Giallongo, Nicola Menci, Andrea Grazian, Stefano Gallozzi, Marco Castellani, Fabrizio Fiore, Adriano Fontana, Laura Pentericci, Konstantina Boutsia, Diego Paris, Roberto Speziali e Vincenzo Testa pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal