Quando nel 1958 il fisico russo Pavel Alekseyevich Cherenkov vinse il premio Nobel per la fisica, probabilmente non avrebbe immaginato che mezzo secolo dopo i suoi studi sulla velocità delle particelle sarebbero stati applicati alla cura dei tumori. Eppure è proprio quello che sta succedendo: un gruppo di ricerca dell’Università di Dartmouth, nel New Hampshire, ha recentemente pubblicato uno studio in cui si indaga la possibilità di sfruttare l’effetto Cherenkov per migliorare le terapie in oncologia.
Com’è possibile? Per rispondere, facciamo un passo indietro. Andiamo al 1888, prima ancora che nascesse il fisico russo protagonista della nostra storia: siamo nel laboratorio di un altro scienziato, il matematico, fisico e ingegnere britannico Oliver Heaviside. Famoso per diversi motivi, dallo studio dei numeri complessi applicati ai circuiti elettrici, alla riformulazione delle equazioni di Maxwell in termini di forze magnetiche. Quello che a noi interessa però è un suo apparente insuccesso, che gli valse un rapporto conflittuale con la comunità scientifica contemporanea per buona parte della sua vita. Nel 1888 pubblicò infatti un articolo che suscitò un acceso dibattito, in cui ipotizzava una deformazione del campo elettrico e magnetico attorno a una particella carica che si muovesse a una velocità superiore a quella della luce. Una condizione ritenuta impossibile: come può un oggetto andare più veloce della luce?
In quegli anni Albert Einstein era ancora un bambino, ma neppure troppo tempo dopo (era il 1905) formulò la teoria della relatività ristretta, che oltre a rivoluzionare completamente la meccanica classica, affermava che niente può viaggiare a una velocità maggiore di quella della luce. La questione sembrava chiusa, l’ipotesi di Heaviside scartata.
Eppure, la teoria einsteiniana parlava di un limite insuperabile solamente nel vuoto. Ma se le particelle si muovessero attraverso un altro mezzo? È la domanda che si pose proprio Pavel Cherenkov, che nel 1934 cominciò a osservare come alcune particelle cariche attraversavano un dielettrico, ovvero un materiale polarizzato da un campo elettrico. Il risultato fu sorprendente: le particelle andavano più veloci della luce. Non più veloci della luce in assoluto, ma più veloci della luce nello stesso mezzo: ecco che la teoria di Heaviside acquistò tutt’a un tratto senso. E non solo: fu anche confermata la sua ipotesi per cui il campo elettrico e magnetico attorno a queste particelle si dovesse deformare: Cherenkov osservò proprio questo, e decretò che ciò che avveniva era un’emissione di radiazione elettromagnetica.
Se poi il dielettrico attraversato dalle particelle cariche era trasparente (come il vetro o un liquido incolore), allora la radiazione elettromagnetica poteva provocare emissioni luminose: un fenomeno che fu chiamato appunto effetto Cherenkov. Definito quindi come l’emissione di luce in un mezzo provocata dal passaggio di una particella carica con una velocità maggiore di quella della luce nello stesso mezzo.
L’effetto Cherenkov è alla base di diversi fenomeni, primo tra tutti la caratteristica luce azzurra che si può osservare nei reattori nucleari.
Negli anni è stato applicato a moltissimi studi di fisica particellare, perché permette di rilevare il passaggio di particelle elementari dotate di elevata energia ed è quindi utilissimo nell’analisi dei fasci prodotti dagli acceleratori di particelle.
Forse proprio questi risvolti applicativi hanno convinto i ricercatori di Dartmouth che l’effetto Cherenkov potesse essere utile anche in medicina. Con un’ipotesi semplice quanto rivoluzionaria: la radiazione di Cherenkov potrebbe rendere visibili i raggi X. Sappiamo tutti che durante le radiografie non è possibile vedere i fasci di radiazione che ci attraversano; lo stesso accade in oncologia nelle radioterapie per la cura dei tumori. Questa è una delle ragioni per cui spesso insieme alle cellule tumorali vengono danneggiate anche le cellule sane: è impossibile colpire con assoluta precisione soltanto la zona interessata.
Ecco dove entra in gioco l’effetto Cherenkov: questo fenomeno fisico potrebbe diventare la chiave per vedere le radiazioni, e aggiustare di conseguenza le terapie. Il meccanismo è esattamente quello che rende visibili le particelle cariche; la sola differenza è che il dielettrico attraverso cui farle viaggiare sarebbe il corpo umano.
Lo studio del gruppo di Dartmouth, pubblicato sul Journal of Biomedical Optics, sembra confermare la correttezza di questa ipotesi. Durante un primo esperimento su un cane con un tumore alla cavità orale, i ricercatori sono riusciti a “fotografare” l’emissione delle radiazioni, rese visibili dall’effetto Cherenkov.
Ora è già stata avviata la seconda fase sperimentale, che dovrebbe testare il metodo su un gruppo di pazienti. Se i risultati fossero positivi, potrebbe essere una svolta importante per la cura dei tumori. È già pronto il nome: “Cherenkoscopia”.