Le supernovae di tipo Ia sono esplosioni stellari tutte molto simili tra loro e anche per questo piuttosto preziose per gli astronomi. Vengono infatti utilizzate come “candele standard“, ovvero come “metro” cosmologico per misurare le distanze nello spazio. Questo grazie al fatto che la loro luminosità apparente dipende quasi esclusivamente dalla distanza a cui si trovano, e dal momento che pensiamo di conoscere piuttosto bene anche la loro luminosità propria – perché è possibile ricavarla dalla velocità con la quale si smorza la luce dell’esplosione – dalla relazione tra le due luminosità possiamo ottenere proprio la distanza delle galassie in cui l’esplosione è avvenuta.
Non solo. Una volta nota la distanza delle supernovae, quando mettiamo in relazione questa misura con il loro redshift (lo spostamento verso il rosso che si registra nello spettro di una sorgente luminosa e che dipendente dalla sua velocità di allontanamento) possiamo anche capire come è cambiata la velocità di espansione dell’universo nel tempo.
Fino a oggi pensavamo di conoscerle piuttosto bene insomma, ma uno studio, guidato da Richard Scalzo della Australian National University, ha dimostrato che le cose non stanno esattamente così. Le nane bianche al carbonio-ossigeno che esplodendo danno vita alle supernovae di tipo Ia avrebbero infatti, secondo la nuova ricerca, uno spettro di masse più ampio di quello aspettato. Questo costringerebbe a rivedere i modelli teorici che descrivono i processi alla base delle esplosioni. L’analisi è in corso di pubblicazione nelle Montly Notices della Royal Astronomical Society ed è disponibile on-line come preprint su arXiv.
Di diversa opinione è Enrico Cappellaro dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Padova: “In effetti – dice l’astronomo ordinario – nei libri di scuola si trova che le SNIa sono l’esplosione di nane bianche che raggiungono la massa di Chandrasecker e questo, tra l’altro, spiegherebbe il fatto che sono tutte uguali. Tuttavia – aggiunge – sono almeno 20 anni che sappiamo che le SNIa non sono tutte uguali, ma mostrano variazioni nella luminosità’ correlate con una diversa evoluzione delle curve di luce. I modelli teorici hanno mostrato che queste variazioni corrispondono a differenze di massa nel materiale espulso dall’esplosione che, lo ricordo, distrugge completamente la stella”.
“Questo lavoro – continua Cappellaro – sulla base di nuovi dati di grande qualità’, sposa questa interpretazione. Bisogna però dire che altri ricercatori sono dell’opinione che i modelli siano incompleti e che ci sia una frazione del materiale espulso che non riusciamo a misurare. Secondo questa interpretazione, almeno nei casi normali, la massa totale della nana bianca è sempre quella canonica e le differenze di luminosità’ hanno altre spiegazioni. Mi pare di poter dire che anche dopo questo lavoro la controversia rimane aperta”.
“Certo – conclude – rinunciare al paradigma standard avrebbe delle conseguenze importanti e, in particolare, dovremmo rivedere tutto quello che pensavamo di sapere sui meccanismi di esplosione. Nonostante negli ultimi anni diversi ricercatori abbiano provato a lavorare in questa direzione per una ragione o l’altra i meccanismi proposti non hanno superato l’esame delle osservazioni. La caccia dunque continua”.