Perché alcuni resti di supernova, come Cassiopeia A, presentano forme stranamente irregolari? È la domanda che ha portato un gruppo internazionale di ricercatori, guidato dall’italiano Gianluca Gregori (che abbiamo avuto occasione di intervistare anche in un’altra occasione vedi Media INAF) della Oxford University, a “ricreare un’esplosione di supernova in laboratorio” invece che osservarla direttamente nello spazio. Per riprodurre su scala ridotta questo fenomeno, tra i più energetici dell’universo, i ricercatori hanno concentrato su un solo punto fasci laser 60.000 miliardi di volte più potenti di un puntatore. Secondo quanto riportato su Nature Physics, hanno scoperto che le “irregolarità” sarebbero dovute a moti turbolenti generati nel gas interstellare dall’incontro della stella esplosa con densi “grumi” di gas nell’ambiente circostante. Questi moti turbolenti, inoltre, spiegherebbero anche l’amplificazione del campo magnetico osservata nei resti di Cassiopeia A.
“Potrebbe sembrare sorprendente che un esperimento che occupa lo spazio di una stanza”, spiega Gregori, “consenta di studiare oggetti astrofisici distanti anni luce. In realtà”, continua lo studioso, “le leggi della fisica sono le stesse ovunque. Così come le onde di una vasca si comportano come quelle dell’oceano, i nostri esperimenti possono contribuire a spiegare eventi come l’esplosione della supernova Cassiopeia A”.
A differenza di altre esplosioni di supernova, le immagini nel visibile di Cassiopeia A – la cui luce, si stima, raggiunse la Terra 300 anni fa dalla costellazione di Cassiopeia, a 11.000 anni luce da qui – mostrano caratteristiche “nodose” irregolari, in corrispondenza di intense emissioni radio e di raggi X. L’origine di questo fenomeno non è ancora chiara, ma si ipotizza – e questo nuovo studio lo confermerebbe – che sia dovuto al passaggio in una regione di spazio caratterizzata da grumi o nubi di gas densi anche 100 volte di più rispetto al gas interstellare.
Per ricreare l’esplosione di supernova in laboratorio, i ricercatori si sono serviti del laser Vulcan del Rutherford Appleton Laboratory, vicino Oxford. Si tratta di un laser di media grandezza, più grande di quelli che solitamente si trovano nelle università, ma allo stesso tempo più piccolo dei laser che sono stati costruiti per la fusione nucleare, come il National Ignition Facility presso il Lawrence Livermore National Laboratory. I risultati dell’esperimento sono poi stati interpretati attraverso simulazioni al computer che hanno richiesto ben 20 milioni di ore di elaborazione su supercomputer dell’Argonne National Laboratory, negli Stati Uniti.
“Abbiamo focalizzato tre fasci laser su un bastoncino di carbonio spesso poco più di un capello all’interno di una camera riempita di gas a bassa densità”, spiega Jena Meinecke, studentessa di Oxford che si è occupata dell’esperimento. L’enorme quantità di calore generata dai laser – diversi milioni di gradi Celsius – ha generato un’esplosione del campione che, come una supernova nell’universo, si è propagata attraverso il gas a bassa densità. Per simulare il banco di nubi di gas ad alta densità che, nell’universo reale, circondano una stella che esplode, è stata introdotta una griglia di plastica che interagisse con l’esplosione.
“Quando il carbonio esplode”, spiega Gregori a Media INAF, “lancia nel gas circostante un’onda d’urto; nel momento in cui arriva sulla griglia, l’onda si frantuma e produce nel gas moti turbolenti simili a quelli delle immagini di Cassiopeia”.
Gli studiosi hanno anche osservato che la presenza della griglia produceva un aumento del campo magnetico. “Una proprietà dei plasmi”, continua Gregori, “è che le linee di forza del campo magnetico seguono il moto del fluido; così, quando il gas diventa turbolento, le linee di campo si intrecciano tra loro e questo processo, incrementando la densità delle linee, amplifica il campo magnetico”.
Visto che campi magnetici più intensi rendono più efficiente la produzione di fotoni radio e raggi X, secondo Gregori questo esperimento smentirebbe l’idea diffusa secondo la quale le esplosioni di supernova si espandano attraverso materiale interstellare distribuito in modo uniforme.
Non solo. Questi risultati potrebbero gettare nuova luce su come siano nati e si siano poi sviluppati i campi magnetici che oggi permeano ogni parte dell’universo. Campi che probabilmente non esistevano ancora subito dopo il Big Bang, quando l’universo era molto omogeneo. “Un’ipotesi è che all’inizio siano stati prodotti campi magnetici piccolissimi, che poi sarebbero stati amplificati attraverso fenomeni di turbolenza”, conclude Gregori. “L’idea che la turbolenza nei plasmi possa amplificare il campo magnetico – di cui, con il nostro studio, abbiamo fornito la prima prova sperimentale – confermerebbe questo modello”.
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