È un sottile groviglio di fili intrecciati, il getto di plasma che danza nello spazio della corona solare durante il fenomeno dell’eruzione solare. La materia esplode dalla fotosfera della nostra stella nello spazio, con un’energia equivalente a decine di milioni di bombe atomiche. Studiare il fenomeno da Terra, il nostro primo punto di vista sull’Universo, non è cosa semplice.
E cosa si può fare per comprendere meglio i flare solari se possiamo fare affidamento esclusivamente sull’osservazione della radiazione e delle particelle originate dalla nostra stella che incontrano la magnetosfera terrestre? Possiamo avvicinarci e guardare il Sole da presso. La sonda NASA Messenger, in orbita su Mercurio e a 45 milioni di chilometri dal Sole (un bel salto in avanti rispetto alla Terra che si ferma alla soglia dei 149 milioni di chilometri), è vicina quanto basta per registrare l’emissione di neutroni durante il fenomeno dei brillamenti solari.
Ogni neutrone creato durante un flare ha una ‘aspettativa di vita’ mediamente di appena 15 minuti. La distanza che può percorrere nello spazio dipende anzitutto dalla sua velocità. Per questo motivo i neutroni più lenti non riescono a fare tanta strada da essere registrati dai rilevatori di particelle in orbita attorno alla Terra. Messenger ci vede più chiaro, insomma, e a dimostrarlo è uno studio appena pubblicato sulle colonne del Journal of Geophysical Research: Space Physics.
“Per comprendere meglio tutti i fenomeni che interessano la nostra stella da tempo monitoriamo i diversi tipi di emissioni solari, siano essi fotoni, elettroni, protoni, neutroni o raggi gamma, ricavando diversi tipi di informazione”, spiega David Lawrence, primo autore dello studio e in forza al Johns Hopkins Applied Physics Lab di Laurel, nel Maryland. “Da Terra possiamo sì osservare il flusso di particelle cariche provenienti dal Sole, in una qualche misura però influenzato dallo scontro fra campi magnetici differenti”.
Le particelle attraversano lo spazio seguendo le linee di un campo magnetico in costante movimento fra Sole e Terra. I neutroni sono gli unici a non subire gli effetti delle variazioni di campo o dell’urto con la magnetosfera terrestre, seguendo un percorso in linea retta. I neutroni sono quindi un ottimo strumento per misurare quei processi di ‘accelerazione’ in cui hanno origine particelle cariche e molto veloci.
Lawrence e il suo team hanno esaminato i dati raccolti dal Messenger il 4 e 5 giugno 2011 e corrispondenti a un’eruzione solare che ha generato un potente getto di particelle dello spazio. Il brillamento si è verificato sul lato opposto del Sole rispetto alla Terra, il che ha impedito di raccogliere dati dal nostro Pianeta, ma non al Solar Terrestrial Relations Observatory NASA (STEREO), la coppia di sonde spaziali che osservano 24 ore su 24 la nostra stella, in posizione più favorevole, di registrare l’evento. L’uso combinato dei dati provenienti dalle diverse missioni ci offre nuove prospettive e diventa uno strumento efficace per affrontare questioni scientifiche irrisolte.
Anche Messenger si trovava incidentalmente in una posizione favorevole e i dati raccolti dai suoi strumenti mostrano un aumento del numero di neutroni nell’orbita di Mercurio ore prima che l’onda di particelle cariche raggiungesse la sonda. Fatto che indica come i neutroni siano stati prodotti dagli urti ad alta energia delle particelle accelerate dal flare con gli strati inferiori dell’atmosfera solare. Dall’incrocio dei dati di Messenger e STEREO forse può davvero arrivare una risposta a come le particelle vengano accelerate nei brillamenti solari.