E’ stato un lampo di raggi gamma lunghissimo, durato quasi sei ore quello avvenuto lo scorso 25 settembre e studiato da un team internazionale di ricercatori guidato da Luigi Piro, dell’INAF. Un’eternità, se paragonato alla durata tipica di simili eventi, che arriva a qualche decina di secondi. Dopo l’allerta inviato agli scienziati dal satellite Swift, i ricercatori hanno seguito l’evoluzione del fenomeno con vari strumenti, dallo spazio e a Terra, ricostruendo passo dopo passo le sue proprietà. La distanza della sorgente di GRB130925A (questa la sigla attribuita all’evento) è relativamente vicina, per gli standard cosmologici: la sua radiazione ha viaggiato 3.9 miliardi di anni prima di raggiungere la Terra, ma le proprietà osservate sono quelle che si ritiene dovessero avere le prime stelle che si sono formate nell’universo circa 13,5 miliardi di anni fa. Agenerare lo smisurato flusso di radiazione di alta energia è stata l’esplosione di una stella grande massa, una supergigante blu. Queste stelle sono alquanto rare nella porzione di universo relativamente vicina a noi, dove si colloca GRB130925A, ma dovevano essere assai comuni nell’universo ‘giovane’, quando quasi tutti i primi astri, molto massicci, si sono evoluti in supergiganti blu e successivamente esplosi. E tutto è avvenuto in un tempo assai breve, se paragonato a quello che compete a stelle di taglia solare: appena qualche milione di anni.
In più, e qui sta l’importanza della scoperta, questa stella risultava essere quasi totalmente priva di elementi chimici diversi dall’idrogeno ed elio, che in astronomia vengono definiti ‘metalli’. Questa proprietà doveva essere condivisa dalle prime stelle che si sono accese nell’universo, rendendo di fatto il lampo di raggi gamma GRB130925A un rappresentante ‘recente’ di analoghi fenomeni avvenuti appena qualche centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang.
“Sono stati elaborati numerosi studi teorici che descrivono come dovrebbe apparirci un lampo di raggi gamma prodotto da una stella primordiale” dice Luigi Piro, dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF di Roma, primo autore dello studio su GRB130925A appena pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters. “La nostra scoperta ci conferma che queste previsioni sono sostanzialmente corrette”.
Gli astronomi ritengono che le prime stelle fossero molto grandi e raggiungessero masse pari a centinaia di volte quella del nostro Sole. L’enorme quantità di materia accumulata in esse deve aver alimentato la produzione di lampi di raggi gamma di lunghissima durata – fino a cento volte più persistenti di quelli standard, ultimo atto del loro ciclo evolutivo prima di trasformarsi in buchi neri.
Ma non è solo la durata dell’emissione gamma che rende così peculiare questo evento. “Ci sono due ‘impronte digitali’ associate all’evento che ci hanno permesso con una certa sicurezza di identificare il progenitore del lampo gamma” prosegue Piro. “La prima, un ambiente molto tenue che circonda la stella esplosa, un indicatore molto forte della sua bassa metallicità. La seconda, la presenza di una componente termica che attribuiamo al fatto che l’astro prima di esplodere fosse assai massiccio”.
Questa accurata ricostruzione della scena dell’esplosione è stata realizzata integrando le osservazioni dei telescopi spaziali XMM-Newton dell’ESA e Swift (una missione NASA con collaborazione di Italia e Regno Unito) con riprese da Terra nelle onde radio condotte dall’Australia Telescope Compact Array dello CSIRO. “Combinare queste osservazioni è stato decisivo per avere una visione completa di questo evento” sottolinea Eleonora Troja, ricercatrice italiana al Goddard Space Flight Center della NASA, che ha partecipato allo studio.
Avere caratterizzato così accuratamente il progenitore di GRB130925A offre ai ricercatori l’eccezionale possibilità di indagare quello che può essere definito un clone delle prime stelle nell’universo, ma ad una distanza nettamente minore, probabilmente formatosi una nube di materiali prodotti nel Big Bang e rimasta inalterato per miliardi di anni.
“Comprendere come si siano formate le prime stelle nell’universo oltre 13 miliardi di anni fa è una delle sfide più grandi dell’astrofisica contemporanea” conclude Piro. “Individuare direttamente questi oggetti celesti va oltre le capacità della strumentazione attuale e futura a causa delle enormi distanze a cui si trovano. L’unico modo che ci rimane è quello di indagare come esplodono e la radiazione prodotta durante eventi catastrofici come quello che abbiamo studiato. La missione Athena, il grande telescopio spaziale in raggi X recentemente approvata dall’ESA, è una delle grandi facilities che permetterà di esplorare questi fenomeni”.
Nel team internazionale che ha condotto lo studio, oltre a Luigi Piro ed Eleonora Troja, hanno partecipato vari ricercatori INAF, come Gabriele Ghisellini (INAF-Osservatorio Astronomico di Brera), Roberto Ricci (INAF-Istituto di Radioastronomia), Fabrizio Fiore e Silvia Piranomonte (INAF -Osservatorio Astronomico di Roma).
Per saperne di più:
- l’articolo A Hot Cocoon in the Ultralong GRB 130925A: Hints of a POPIII-like Progenitor in a Low-Density Wind Environment di Luigi Piro, Eleonora Troja, Bruce Gendre, Gabriele Ghisellini, Roberto Ricci, Keith Bannister, Fabrizio Fiore, Lauren A. Kidd, Silvia Piranomonte, e Mark H. Wieringa pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters