Quasi 2 milioni. Sono tante le fotografie scattate al pianeta Terra dalle prime missioni Mercury degli anni Sessanta fino ai panorami mozzafiato raccolti dalle ‘finestre’ della Stazione Spaziale Internazionale. Un archivio sterminato di cui un terzo comprende esclusivamente immagini in notturna della superficie terrestre, da un punto di vista privilegiato: lo spazio.
Certo a vederle così, a prima vista e da 400 chilometri di altezza, non dev’essere facile dare un nome a città e centri abitati più piccoli, di notte, grazie alla sola illuminazione pubblica e privata. Se è relativamente semplice indovinare le grandi metropoli come New York, Berlino e Parigi, non è altrettanto banale disegnare la disposizione dei nuclei abitati che si perdono nel buio di zone quasi deserte come l’Africa settentrionale, il Canada, la Siberia.
La NASA da qualche anno si è affidata al buon cuore dei volontari in rete. Alla Universidad Complutense di Madrid hanno fatto di più, mettendo a punto uno strumento online per navigare con criterio nello sterminato archivio fotografico a disposizione. Tre gli strumenti per contribuire: il primo, che è anche il più semplice, si chiama Dark Skies e richiede una mera classificazione generale dell’immagine sulla base di quanto è finito in obiettivo (una città, una regione, un’aurora o il profilo di un astronauta). Con il secondo strumento si scende nei dettagli dando la possibilità all’utente di riconoscere singole caratteristiche di un territorio e georeferenziarle, il suo nome è Night Cities. Infine si entra nel regno dell’ancora sconosciuto ai ricercatori, con Lost at Night, ancora in fase di test.
Per i naviganti in rete è come un gioco. Ma per gli scienziati rappresenta una concreta possibilità di utilizzare un parco immagini sterminato come strumento di analisi scientifica di fenomeni come l’inquinamento luminoso.
Fra le forme più diffuse di inquinamento del pianeta – oltre il 60% della popolazione mondiale vive sotto un cielo troppo illuminato – la cosiddetta light pollution non solo è un gigantesco spreco di energia, ma spesso interferisce con osservatori astronomici e sconvolge l’ecosistema con effetti negativi sulla salute dell’ambiente.
La salvaguardia del cielo notturno come parte del patrimonio naturale, contro le forme di inquinamento luminoso che oscurano le stelle sopra metropoli e centri abitati, passa anche dalla tecnologia. E proprio nel mese di agosto un’interessante iniziativa di crowfunding è stata lanciata dall’associazione CieloBuio per finanziare lo sviluppo di un nuovo progetto di illuminazione pubblica.
Si tratta di uno speciale film plastico in grado di indirizzare verso il basso l’emissione luminosa delle insegne pubblicitarie, ed è stato sviluppato dall’italiano Fabio Falchi, esperto di inquinamento luminoso, ricercatore presso l’Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Inquinamento Luminoso e presidente di CieloBuio.
“L’ottica della pellicola, composta da una serie di prismi, consente di indirizzare la luce dell’insegna solo dove necessario, evitando emissioni luminose verso il cielo e l’ambiente circostante, comprese le abitazioni delle persone che vivono nei pressi degli esercizi commerciali”, spiega Falchi. “Le prime sperimentazioni dimostrano che la visibilità delle insegne non viene compromessa dalla presenza del film ottico, che invece permette di limitare l’inquinamento luminoso verso l’alto”.
Il prossimo passo è la registrazione della tecnologia e la produzione di prototipi. Attualmente in Italia sono già disponibili numerose tecnologie attente alla questione della light pollution, dai sistemi schermati diffusi sulla rete urbana e autostradale fino agli impianti di illuminazione top-down degli edifici pubblici e storici. Su esercizi commerciali e luminarie pubblicitarie non vi sono regole precise e valide ovunque. Alcuni comuni hanno imposto lo spegnimento in determinate fasce orarie. La tecnologia, come spesso capita, potrebbe risolvere il problema alla radice.
Non ci resta che stare a guardare, il cielo.