Chi ci assicura che la realtà nella quale siamo immersi, in apparenza così tangibile, non sia sotto sotto una proiezione a due dimensioni? E che l’impressione di vivere in un universo in 3D non sia frutto di un’illusione, dovuta magari all’altissima risoluzione e al fatto di esserci calati dentro? Quasi fossimo gli inconsapevoli protagonisti di un serial TV, che si aggirano in un mondo apparentemente tridimensionale quando in realtà altro non è che una piatta matrice di pixel sullo schermo del nostro televisore? La domanda è di quelle che danno le vertigini. Soprattutto se a porsela non è un manipolo di fanatici della fantascienza, bensì fisici teorici del calibro di Leonard Susskind o il premio Nobel Gerardus ‘t Hooft, entrambi fra i proponenti del cosiddetto “principio olografico”: una congettura – già abbiamo avuto modo di accennarvi anche su Media INAF – in base alla quale un mondo a n dimensioni può essere rappresentato dal mondo a n-1 dimensioni che ne segna i confini.
La domanda è di quelle che danno le vertigini, dicevamo, ma la risposta potrebbe essere a portata di mano. E arrivare dalla campagna a ovest di Chicago, in particolare da Batavia, in Illinois, dove sorge il “cugino americano” del CERN: il Fermilab. Intitolato a Enrico Fermi, il laboratorio che fino a pochi anni fa ha ospitato il Tevatron (il rivale di LHC) è ora teatro di uno fra i più ambiziosi esperimenti di fisica mai concepiti: «Vogliamo scoprire se anche lo spazio-tempo, così come la materia, è un sistema quantistico», dice Craig Hogan, direttore del Centro per l’astrofisica particellare del Fermilab e padre della teoria del rumore olografico. «Se mai dovessimo vedere qualcosa, l’idea di spazio che ci ha accompagnato per migliaia di anni è destinata a cambiare completamente».
Per riuscirci, Hogan e colleghi hanno costruito un olometro, abbreviazione per “interferometro olografico”: un dispositivo (vedi schema qui sotto) formato da due interferometri, posti l’uno accanto all’altro, che emettono due fasci laser da un kilowatt ciascuno (una potenza equivalente a quella di 200mila puntatori laser) verso uno splitter e quindi giù lungo due bracci perpendicolari da 40 metri. La luce riflessa dei due fasci viene poi ricombinata, dando eventualmente luogo – se l’ipotesi dei ricercatori è corretta – a una figura d’interferenza: la firma del “rumore olografico”, ovvero fluttuazioni quantistiche nella trama dello spaziotempo.
Ma perché mai lo spazio dovrebbe “fluttuare”? Perché dovrebbe mostrare quelle silhouette cangianti tipiche degli ologrammi, appunto, che danno sì l’impressione di tridimensionalità ma al tempo stesso di instabilità? Per rispondere, torniamo alla metafora iniziale, quella delle immagini su uno schermo. Ci appaiono tridimensionali e continue, ma se ci avviciniamo possiamo vedere che in realtà sono tutte pixelate. Se la risoluzione è molto alta e lo schermo è molto compatto, però, come può essere quello di un tablet HD, distinguere i singoli pixel diventa praticamente impossibile. Ebbene, il “pixel size” dell’universo olografico, cioè la dimensione del singolo pixel, stando agli scienziati dovrebbe corrispondere alla scala di Planck: ogni pixel sarebbe cioè circa 10 trilioni di trilioni di volte più piccolo di un atomo.
Pixel di dimensioni infinitesimali, dunque. Ma non nulle. Ed è proprio su questo che si gioca l’intera congettura. Se lo spazio fosse davvero “pixelato”, ciò implicherebbe un’incertezza intrinseca, nel senso che all’interno d’un singolo pixel il concetto stesso di posizione non avrebbe più significato alcuno. Detto altrimenti, esisterebbe un limite alla capacità dell’universo di memorizzare informazione: un determinato numero di bit, sicuramente elevatissimo, ma non infinito. Ed è proprio dall’indeterminatezza inevitabile dovuta alla natura digitale dello spazio (al suo campionamento, potremmo dire) che emergerebbero le fluttuazioni, il rumore di fondo olografico che gli scienziati del Fermilab vogliono misurare – ovviamente dopo aver filtrato tutte le possibili fonti di contaminazione, prime fra tutte il rumore di fondo dovuto alle apparecchiature elettroniche.
«Se alla fine riusciremo a isolare un rumore del quale non ci sia modo di sbarazzarsi, potremmo aver rilevato qualcosa di fondamentale della natura – un rumore intrinseco allo spaziotempo», spiega Aaron Chou, del Fermilab, responsabile dell’olometro. «Per la fisica si tratta di un momento emozionante. Un risultato positivo inaugurerebbe un nuovo modo di interrogarsi su come funziona lo spazio».