Nel 2006 hanno causato un picco di energia registrato dall’esperimento BaBar della Stanford University in California, ma la cosa è rimasta insoluta fino a quando i fisici dell’esperimento LHCb (al quale lavorano ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) non ci hanno messo su gli occhi nell’affascinante laboratorio sotterraneo del Large Hadron Collider al CERN di Ginevra (che da poco ha festeggiato 60 anni di attività, vedi MediaINAF). Ed ecco, all’improvviso, saltano fuori due nuove particelle: nome scientifico DS3*(2860)– e DS1*(2860)–, circa tre volte più massicce dei protoni, una delle quali presenta una combinazione di proprietà mai osservate prima.
«I risultati in nostro possesso mostrano che il picco rilevato dall’esperimento BaBar è stato causato da due nuove particelle», spiega Tim Gershon della Warwick University (Regno unito) e primo autore della scoperta.
In fisica particellare, i mesoni sono un gruppo di particelle subatomiche composte da un quark e un antiquark legati dalla forza forte, una delle quattro forze fondamentali che legano le componenti di un nucleo all’interno degli atomi. Della forza forte, va detto, sappiamo ancora poco all’interno del modello standard della fisica particellare. Sappiamo invece che i quark sono disponibili in sei diversi gusti, conosciuti come: up, down, strange, charm, bottom e top. Nell’ordine: dal più leggero al più pesante.
Le nuove particelle individuate da LHCb contengono ciascuno un antiquark charm e un quark strange. DS3*(2860)– ha un valore di spin a 3, cosa che la rende di fatto la prima particella a contenere, a parità di caratteristiche, un quark charm. Una peculiarità che promuove la nuova particella a chiave di volta nell’esplorazione di quel che ci resta da scoprire riguardo la forza forte. Non fosse altro per il semplice fatto che la matematica dei quark pesanti è di gran lunga meno complessa di quella necessaria per i quark più leggeri.
I ragazzi di LHCb hanno utilizzato una tecnica nota come “Dalitz plot analysis” per districare il problema del picco di energia e arrivare alle due componenti in radice. Un lavoro complesso, mai messo in pratica per i dati di LHC, che tuttavia ha permesso di separare e visualizzare i diversi percorsi che una singola particella può assumere nel processo di decadimento.
«Ora che la tecnica Dalitz è stata testata con successo sul banco di prova di LHCb possiamo mettere mano ai dati di LHC e facilitare il processo di scoperta di nuove particelle, anche e soprattutto per capire come queste siano legate fra loro», spiega Gershon.
«Un ottimo lavoro di fisica sperimentale», aggiunge Robert Jaffe del Massachusetts Institute of Technology di Cambridge. «Anche senza spingerci oltre il modello standard, possiamo chiarirci le idee in tema di quark e gluoni. Il fatto che i fisici di LHCb siano stati in grado di servirsi del metodo Dalitz è una conferma circa la qualità e la quantità dei dati accumulati. Cambia il modo in cui guardiamo al futuro della ricerca in questo settore».