Se l’universo fosse sulla soglia della pensione, l’immagine qui a fianco (cliccare per ingrandire) potrebbe rappresentare la TAC del suo dito mignolo quando aveva una quindicina d’anni. La prima mai ottenuta di un’epoca così remota. Quello che mostra è la distribuzione a grande scala della materia – oscura e non – circa tre miliardi di anni dopo il Big Bang. Il volume ricostruito è sì quello d’un “mignolo”, rispetto all’intero universo, ma pur sempre colossale: un parallelepipedo che, all’epoca, misurava 2.5 milioni di anni luce in larghezza, 6 in altezza e 100 in lunghezza. Insomma, una porzione di cielo enorme – basti pensare che l’intera Via Lattea ha un diametro poco superiore ai 100 mila anni luce – e, come se non bastasse, oggi triplicata con l’espandersi dell’universo.
Al suo interno, dicevamo, filamenti di dark matter e normale materia barionica – per la precisione, idrogeno primordiale, quello prodotto agli albori della storia dell’universo. Filamenti che costituiscono la cosiddetta “cosmic web”, l’invisibile impalcatura cosmica sulla quale si sono addensati, per effetto della forza gravitazionale, gli ammassi di galassie.
Ma come è stato possibile ricostruirla, a distanza di circa 11 miliardi di anni e per di più in tre dimensioni? Come spesso accade, c’è voluta un’idea geniale e tanta tenacia. L’idea geniale è stata quella di sfruttare su scala astronomica la tecnica, appunto, alla base della tomografia computerizzata, “retroilluminando” la tela cosmica con la debole radiazione di 24 galassie. E alla tenacia ha dovuto far ampio ricorso l’astronomo alla guida del progetto, Khee-Gan Lee, ricercatore postdoc al Max Planck Institute for Astronomy, quando il tempo d’osservazione che aveva strappato su uno fra i migliori telescopi al mondo – presso il Keck Observatory di Mauna Kea, alle Hawaii – si è drasticamente ridotto ad appena una manciata di ore a causa delle avverse condizioni meteorologiche.
«Proprio così, è un risultato ottenuto con sole quattro ore d’osservazione al telescopio da 10 metri Keck-1. In realtà, credo che dovremmo considerarlo come una proof of concept di un’idea che era già stata proposta in passato. L’intento di Khee-Gan Lee è ora quello di sfruttare il successo di questa dimostrazione di fattibilità per chiedere molto più tempo al Keck, 150 o 200 ore, in modo da proseguire lo studio in maniera più sistematica e migliorare significativamente i risultati ottenuti», dice a Media INAF il direttore dell’Osservatorio Astronomico di Bologna, Gianni Zamorani, uno dei quattro coautori INAF – gli altri tre sono Bianca Garilli e Dario Maccagni, dello IASF di Milano, ed Elena Zucca, sempre dell’Osservatorio astronomico di Bologna – dell’articolo che riporta i risultati, pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters.
E per quanto riguarda la tecnica osservativa? Davvero è così affine alle tomografie computerizzate che si fanno in ospedale? «In effetti ci sono tante analogie», conferma Zamorani. «Nella TAC si sfruttano le immagini ottenute da proiezioni radiografiche dello stesso oggetto, prese ad angolazioni diverse, per ricostruire l’immagine in tre dimensioni. Qui, in modo analogo, si sfrutta l’assorbimento della luce, proveniente da galassie di fondo, da parte di nubi di idrogeno poste lungo la linea di vista per ricostruire, combinando tutte le linee di vista, la mappa tridimensionale delle nubi di idrogeno. Mappa che può essere considerata una rappresentazione della distribuzione della materia nell’ipotesi ragionevole che queste nubi d’idrogeno possano essere considerate come “traccianti” della struttura su grande scala della materia. Quanto più sono fitti sul cielo gli oggetti di cui si misurano gli spettri, tanto più precise sono le misure che si ottengono. Osservazioni di questo tipo sono già state fatte usando come target quasar brillanti, ma la loro densità in cielo è così bassa che le mappe d’idrogeno neutro ottenibili con i quasar hanno una risoluzione spaziale molto bassa. La novità di queste osservazioni è che si è dimostrato che si possono usare come target anche galassie deboli, che hanno il vantaggio di essere molto più numerose dei quasar, e quindi permettono di ricavare informazioni anche su scale angolari molto più piccole e interessanti dal punto di vista sia astrofisico che cosmologico».
Per saperne di più:
- Leggi l’articolo “Lyα Forest Tomography from Background Galaxies: The first Megaparsec Resolution Large Scale Structure Map at z > 2“, di K.G. Lee et al.
Il servizio video su INAF-TV: