RICERCA GUIDATA DALLA TRIESTINA IRENE ZANETTE

TAC in HD con la luce di sincrotrone

Non raggi X convenzionali, bensì radiazione di sincrotrone. Utilizzata per mettere a confronto tre metodi per la tomografia. Media INAF ha intervistato la coordinatrice dello studio pubblicato sul Journal of Applied Physics, Irene Zanette, della Technische Universität di Monaco

     23/10/2014
Immagine ottenuta in modo non invasivo della sezione del tessuto cardiaco di un topo realizzata la tomografia X a contrasto di fase propagation-based, tecnica che fornisce immagini più nitide e con una risoluzione superiore rispetto alle altre due tecniche considerate nello studio. Crediti: Irene Zanette/Technische Universität München

Immagine ottenuta in modo non invasivo della sezione del tessuto cardiaco di un topo realizzata con tomografia X a contrasto di fase “propagation-based”, metodo che fornisce immagini più nitide, e con una risoluzione superiore, rispetto agli altri due considerati nello studio. Crediti: Irene Zanette/Technische Universität München

Cos’hanno in comune nebulose come quella che ospita la pulsar del Granchio, buchi neri come Cygnus-X1 e acceleratori di particelle come quello che sorge presso l’Area Science Park di Trieste? Se avete seguito i link già lo sapete: sono tutte sorgenti in grado di emettere una radiazione assai particolare: la luce di sincrotrone. Ebbene, la luce di sincrotrone, prodotta da particelle cariche accelerate a velocità relativistiche e costrette a seguire traiettorie curve, oltre a pervadere l’universo al punto da infastidire persino le misure di fondo cosmico a microonde, è perfetta per eseguire tomografie a raggi X di altissima qualità, come quella dell’immagine qui a fianco. E se è ancora presto per farvi ricorso in modo diffuso in ambito medico, quando si tratta di studiare le macchine diagnostiche del prossimo futuro è la scelta d’elezione.

È infatti con raggi X di alta qualità prodotti dalla radiazione di sincrotrone che un team di scienziati, sfruttando l’acceleratore della European Synchrotron Radiation Facility (ESRF), ha messo a confronto tre diverse tecniche di tomografia a contrasto di fase: interferometrica con reticolo, propagation-based con ricostruzione di fase single-distance e olotomografia. I risultati sono pubblicati sull’ultimo numero del Journal of Applied Physics, e dicono che i tre metodi, per quanto riguarda il loro impiego in ambito diagnostico, sono complementari.

Quanto alla scelta dei raggi X da radiazione di sincrotrone al posto dei normali raggi X, per capire cosa li distingue Media INAF ha raggiunto in Australia, dove si trova per una conferenza, la scienziata alla guida del team, Irene Zanette, ricercatrice alla Technische Universität di Monaco, in Germania.

«Nei sincrotroni, gli elettroni vengono accelerati a velocità relativistiche in una traiettoria, più o meno circolare, controllata tramite dei magneti. Quando gli elettroni cambiano di traiettoria, emettono fans [ventagli, ndr] di raggi X molto collimati e intensi, che appunto costituiscono la radiazione di sincrotrone. Essendo radiazione estremamente intensa e di altissima qualità, i raggi X possono venire focalizzati in spot di pochi nanometri e monocromatizzati», spiega Zanette.

E questo quali vantaggi comporta?

«Avere spot con dimensioni così ridotte, da alcuni centimetri ad alcuni nanometri, e radiazione monocromatica permette di studiare differenti proprietà della materia e a diverse scale: da quella atomica o molecolare fino a quella macroscopica utilizzata per limaging, come abbiamo fatto in questo esperimento».

Ma i raggi X che si usano di solito quando andiamo a fare una TAC non sono prodotti in questo modo, no?

«No, in ospedale i raggi X si ottengono attraverso un processo molto simile a quello utilizzato nel 1895 da Röntgen quando li scoprì, quello della storica radiografia della mano della moglie di con l’anello, la prima nella storia. Vengono prodotti su un fan molto più grande rispetto a quello della luce di sincrotrone, sono molto meno intensi e la larghezza di banda in energia è assai più ampia. Certo, poter avere anche negli ospedali un grande fascio per illuminare il corpo umano con qualità simili a quelle della luce di sincrotrone sarebbe meglio: permetterebbe non solo d’ottenere immagini di qualità incredibilmente più alta, come quelle pubblicate nel nostro articolo, ma addirittura di ridurre la dose di radiazione somministrata al paziente».

Allora perché continuiamo a usare i raggi X tradizionali?

«Perché i sincrotroni sono macchine enormi, strutture circolari con un diametro di parecchie decine di metri. Ma c’è, ovviamente, molto interesse, e molti lavori in corso, per trasferire in ambito diagnostico le tecniche che sviluppiamo ai sincrotroni. E gli approcci sono i più diversi. Molti istituti di ricerca, ma anche molte industrie, studiano come trasferire tecniche sofisticate nei tubi a raggi X che già esistono negli ospedali. Altri invece, come il sincrotrone di Trieste (dove ho iniziato la mia carriera) o quello dell’ESRF (a Grenoble, in Francia), cercano di portare i pazienti in queste strutture. Infine, c’è chi studia il modo per rendere più compatti i sofisticati dispositivi per la produzione di radiazione. Dove lavoro attualmente (al TUM, la Technische Universität di Monaco), per esempio, abbiamo comprato il primo esemplare al mondo di sincrotrone compatto, appena 5 metri per 2. Contiamo d’installarlo nei nostri laboratori nei prossimi mesi.

A proposito della sua esperienza lavorativa, come è avvenuto il passaggio da Trieste a Monaco?

Irene Zanette

Irene Zanette

«La passione per l’x-ray imaging mi ha travolto durante i primi anni universitari nella mia citta natale, appunto a Trieste, lavorando nel sincrotrone italiano. I primi passi li ho compiuti proprio studiando come la pellicola radiografica risponde alla radiazione di sincrotrone. Da allora non sono più riuscita a fermarmi: mi sono spostata prima a Pisa, dove ho studiato per il master, per poi approdare a un grande centro di ricerca internazionale qual è appunto l’ESRF, il sincrotrone europeo di Grenoble, in Francia. E da tre anni sono in Germania, a Monaco di Baviera, dove ho trovato un’ottima università e un gruppo di ricerca eccellente, di una cinquantina di persone, guidato dal professor Franz Pfeiffer. È quasi una grande famiglia: oltre all’attività di ricerca, andiamo anche a correre, e dopo lunghe giornate di lavoro ci rilassiamo con delle ottime birre».

Lasciare l’Italia non le è pesato troppo, sembra di capire…

«Be’, certo l’immersione in culture e lingue differenti della mia ha contribuito enormemente al mio arricchimento personale, e questo è un aspetto della mia vita che adoro. Ma nonostante abbia trovato conforto nel linguaggio internazionale della scienza, non è sempre stato facile mettere in piedi una vita in un paese dove pure la lingua, all’inizio, è una sconosciuta. Per fortuna sono sempre rimasta in Europa, e ogni tanto mi regalo qualche lungo weekend a casa, dove posso godere della famiglia, della mia citta, del suo mare e del mio cane: che, in onore alla meccanica quantistica, si chiama Spin».

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