Risale all’era Paleo-proterozioca il Cratere terrestre di Sudbury, tra i più noti sul nostro pianeta. I numeri parlano da soli: ha 1,849 miliardi di anni e un diametro di 250 chilometri (è il secondo più grande al mondo dopo il Cratere Vredefort in Sudafrica). È proprio quello che si può chiamare un bel “buco” nel mezzo dell’Ontario, Canada. Finora i ricercatori, geologi e astronomi, sono stati sempre concordi nel dire che il responsabile di questo imponente impatto fosse stato un asteroide (dal diametro dai 10 ai 15 chilometri). Secondo un recente studio, però, si tratterebbe di una cometa, magari simile a quella che il lander Philae e la sonda Rosetta dell’ESA hanno cominciato a studiare.
Le ultime analisi sono state pubblicate sul giornale scientifico Terra Nova. I dati rivelano «la presenza di un particolare elemento del gruppo del platino nei depositi trovati. La distribuzione di questi elementi (siderofili e litofili, ndr) all’interno della struttura del cratere e altri dati suggeriscono che l’oggetto fosse una cometa. Così, sembra che una cometa con una componente condritica refrattaria possa aver creato il bacino di Sudbury», ha spiegato Joe Petrus, a capo del team che ha firmato il paper. «I nostri risultati sottolineano l’importanza di integrare gli studi sugli elementi siderofili e lavorare su un ampio set di dati», si legge nello studio.
Secondo quanto studiato in precedenza i detriti di questo spettacolare impatto sono stati sparsi fino a 800 km di distanza, ricoprendo una superficie di 1,6 milioni di chilometri quadrati. Il bacino, situato nei pressi della città di Greater Sudbury sullo scudo canadese, è lungo 62 chilometri, largo 30 chilometri e profondo più di 15 chilometri. Analisi future saranno in grado di rivelare la vera natura e le fattezze del bolide che colpì la Terra. Magari qualche indizio in più potrebbe arrivare proprio da Churimov-Gerasimenko
Per saperne di più:
Leggi QUI lo studio “On the track of the elusive sudbury impact: geochemical evidence for a chondrite or comet bolide“, di Joseph A. Petrus, et al.