Se si potesse imbrigliare l’energia dei getti emessi da certi buchi neri supermassicci e convogliarla sulla Terra, non avremmo certo bisogno di preoccuparci di costruire nuove centrali, magari meno inquinanti. Anzi, avremmo esattamente il problema opposto: come sopravvivere a quello sterminato flusso di radiazione. In un solo secondo infatti, un getto rilascia in media tanta energia quanta se ne produrrebbe sul nostro pianeta, sommando quella derivante da tutte le centrali elettriche e i veicoli in circolazione, in circa due miliardi di miliardi di anni. Sì, avete letto bene, non ci sono errori di scrittura: “2” seguito da diciotto zeri!
Nell’universo, in media, i getti vengono prodotti da un buco nero supermassiccio ogni dieci. Questi mostri cosmici, oltre ad accrescere materia da un disco di gas e polveri che li circonda, ingurgitando enormi quantità di massa, riescono ad espellerne una parte in due fasci, che si allontanano in direzioni opposte dai suoi poli. La materia che fluisce in questi getti viene accelerata a velocità molto prossime a quella della luce. Come ci riesca, non è ancora chiaro, ma non c’è dubbio che lo faccia. L’emissione di questi getti, prodotta dal plasma che si muove, è fortemente collimata nella direzione del moto, come un faro. Se ci punta contro, vediamo sorgenti brillantissime, mentre se punta in altre direzioni, le stesse sorgenti diventano molto deboli.
Per alimentarli c’è bisogno di un ‘motore’ eccezionale, come eccezionali sono i buchi neri. Ma l’energia convertita dalla materia che precipita su di essi non basta: c’è bisogno di una sorgente supplementare, una sorta di “turbo”, che arriverebbe dalla riduzione della altissima velocità di rotazione dei buchi neri stessi. Un processo che permetterebbe di arrivare così a convertire fino al 29 per cento della loro massa in energia. Un’efficienza elevatissima, se pensiamo che l’energia liberata nel processo di fusione nucleare nelle stelle proviene dalla trasformazione di appena lo 0,8 per cento della massa totale di quattro singoli protoni, convertita alla fine in un nucleo di elio. A giungere a questi sorprendenti risultati è uno studio condotto da ricercatori italiani, guidati da Gabriele Ghisellini dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera e pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature.
«Quello che abbiamo fatto è stato di calcolare la potenza che i getti devono avere per produrre la radiazione che vediamo, e confrontarla con la luminosità rilasciata dalla materia che precipita sul buco nero» spiega Ghisellini. «Abbiamo trovato che il getto vince: la sua potenza è maggiore di quella prodotta dalla materia che cade verso il buco nero. Questo indica che siamo di fronte a un nuovo tipo di motore, assai più efficiente di quelli finora conosciuti. Per scoprire quale può essere, dobbiamo pensare quali fonti di energia sono disponibili. Così scopriamo che effettivamente c’è un “deposito” di energia, contenuta nella rotazione del buco nero. Si dice spesso che un buco nero “non ha capelli”, intendendo con questo che ha solo tre proprietà: la sua massa, la sua carica, e infine la sua rotazione».
Ebbene, la sua rotazione può fornire energia. E non poca: il 29 per cento della massa totale di un buco nero che ruota alla massima velocità possibile può essere convertito in energia. Una quantità enorme, in grado di far funzionare un getto anche per qualche miliardo di anni. Un’efficienza superiore anche a quella del processo con il quale gli stessi buchi neri convertono in energia la materia che cade su di essi dal loro disco di accrescimento, che si attesta intorno al 10 per cento.
Il problema è comprendere i meccanismi che permettono di attingere a questo immenso deposito di energia, legato alla rotazione forsennata del buco nero. L’idea che incontra il maggiore favore, tra gli addetti ai lavori, è supporre che il campo magnetico prodotto dalla materia che sta cadendo sul buco nero riesca a “frenare” la sua rotazione. L’energia persa da questo frenamento può venire usata per produrre e accelerare il getto. Quindi ci dovrebbe essere un legame tra accrescimento e getto.
«Se la quantità di materia che cade aumenta, aumenta anche il campo magnetico prodotto, e quindi anche il “frenamento” del buco nero, che così può produrre un getto più potente – continua Ghisellini. Ma perché questo succede solo nel dieci per cento dei casi? Non lo sappiamo: è il prossimo enigma da risolvere».
Il team che ha condotto lo studio, pubblicato sul numero del 20 novembre 2014 della rivista Nature nell’articolo “The power of relativistic jets is larger than the luminosity of their accretion disks”, oltre Gabriele Ghisellini dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera, è composto da Fabrizio Tavecchio e Laura Maraschi (INAF-Osservatorio Astronomico di Brera), Annalisa Celotti (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Trieste e associata INAF) e Tullia Sbarrato (Università dell’Insubria e associata INAF).
Il comunicato stampa INAF