Addio cacciatori notturni d’esplosioni stellari, è l’ora del supercomputer. Nemmeno gli astronomi possono dirsi al sicuro dalla minaccia che incombe su tutte le attività lavorative contemporanee, ovvero quella di vederci soppiantati da un robot – o da un software – più economico, più veloce e sempre più spesso persino più bravo di noi. Software che nel caso dell’identificazione delle supernove ha appena bruciato ogni record: 600 mila sorgenti all’ora, passate una per una al setaccio e – se positive – assegnate alla probabile famiglia d’appartenenza.
Sono trascorse appena tre settimane da quando, proprio qui su Media INAF, abbiamo dato l’annuncio dell’ennesima scoperta “amatoriale” di una supernova, in quel caso da parte di astrofili italiani e giapponesi. Imprese che richiedono pazienza certosina, ricambiando i protagonisti con la soddisfazione d’essere stati i primi testimoni della morte d’una stella massiccia. Imprese pioneristiche che rischiano di farsi sempre più rare con il diffondersi d’accoppiate invincibili – muscoli al silicio sempre più potenti e menti artificiali sempre più sofisticate – come questa appena uscita dal National Energy Research Scientific Computing Center del Dipartimento dell’energia statunitense.
«Il nostro algoritmo riesce a classificare l’osservazione d’una candidata supernova in circa un centesimo di secondo, quando a una persona esperta possono essere necessari diversi secondi. Utilizzando una sessantina di core d’un supercomputer, riusciamo a classificare 200 mila rilevazioni in circa 20 minuti, compreso il tempo necessario per l’interazione con il database e l’estrazione delle caratteristiche», spiega il “papà del mostro”, Danny Goldstein, lo studente di Berkeley – al suo secondo anno postlaurea – che ha sviluppato il codice per automatizzare il processo di riconoscimento delle supernove.
Ma come funziona? Partiamo dalla “materia prima”, le immagini del cielo australe: a sfornarle – al ritmo vertiginoso di un terabyte per notte – è la camera da 570 megapixel del telescopio Victor M. Blanco situato al Cerro Tololo Interamerican Observatory (CTIO), sulle Ande cilene. Immagini date in pasto al cuore del nuovo sistema, un algoritmo di riconoscimento basato su un metodo decisionale, detto “Random forest”, in grado di apprendere e automigliorarsi.
Individuare una supernova, in linea di principio, è un compito relativamente semplice: se là dove c’era il buio ora c’è una luce, il repentino cambiamento potrebbe essere dovuto all’esplosione d’una stella giunta alla fine dei suoi giorni. Ma potrebbe anche essere altro, qui sta il problema: i “falsi positivi” sono numerosi, come ben sanno i cacciatori di supernove umani. Un problema che affligge anche quelli con il cuore di bit.
Per distinguere fra i tanti casi possibili, l’algoritmo sviluppato da Goldstein sottopone la candidata a una sorta d’esame, assegnandole alla fine un “voto” che va da 0 a 1, e che indica la probabilità d’avere proprio a che fare una supernova. E pare che il sistema abbia già imparato piuttosto bene come si valuta una stella: nei test preliminari, dice Goldstein, ci ha preso 96 volte su 100. La speranza degli astrofisici è quella di riuscire così a individuare un numero molto elevato di supernove di “tipo Ia”, potenti esplosioni che si verificano in sistemi binari nei quali una delle due stelle è una nana bianca. La nana bianca risucchia materia dalla stella compagna fino a raggiungere la massa critica – sempre uguale – ed esplodere, appunto, come supernova. Proprio il fatto che la massa critica sia sempre la stessa fa sì che le supernove di tipo Ia possano essere utilizzate come punti di riferimento molto precisi per il calcolo delle distanze: più supernove Ia si conoscono, più sarà dettagliata la mappa della velocità d’espansione dell’universo. Espansione il cui procedere a ritmo accelerato viene attribuito, dagli astronomi, a quella forza tutt’ora sconosciuta nota come “energia oscura”.