Il 15 dicembre di 50 anni fa, dalle coste della Virginia, a Wallops Island, un satellite di produzione italiana iniziava ad orbitare intorno alla Terra. Il nostro era il terzo paese, dopo le grandi potenze Urss e Usa, a inviare nello spazio un satellite.
Paese ben strano il nostro: quello che viene giustamente rivendicato con orgoglio come un record che vede davanti l’Italia agli altri paesi europei non è tale da giustificare adeguati investimenti e continuità strategica.
Eppure l’Italia ha una storia spaziale importante, che inizia negli anni 40 con gli studi sulla propulsione portati avanti dalla aeronautica militare di cui Luigi Broglio, il padre del progetto San Marco, così era denominato il satellite, era parte.
Una storia fatta anche dell’appassionato appello alla condivisione europea per la ricerca e la ricerca spaziale, che ebbe in Edoardo Amaldi il suo più fervente sostenitore e portò alla creazione dell’ESRO, la European Space Research Organizzation, da cui nacque poi l’attuale Agenzia Spaziale Europea.
Il progetto San Marco prevedeva anche la creazione di una base di lancio italiana, in Kenia a Malindi, con una piattaforma marittima che vide il lancio dei satelliti voluti da Broglio fino al 1988. Spediti nello spazio grazie al vettore americano Scout in attesa che fosse realizzato il lanciatore italiano Vega, quel Vega che ebbe la forza di diventare un programma europeo solo nel 1999 e che viene rappresentato come il successo italiano delle ultime tre ministeriali dell’ESA.
Il nostro, di fatto, è un paese che sembra andare avanti per strappi, senza quella capacità strategica di lunga durata che auspicava Giorgio La Malfa all’epoca del primo centrosinistra. Valeva, all’epoca, per il CNR, al quale faceva riferimento il Piano Spaziale Nazionale e vale oggi per l’ASI che ne è una derivazione.
Gli strappi sono rappresentati dai molti successi, da Sirio nel 1977 a Italsat F1 e F2 agli inizi degli anni ’90, alla Stazione Spaziale Internazionale, vissuta con doppio ruolo, nazionale e come paese dell’ESA, senza dimenticare il meritato riconoscimento internazionale della nostra scuola di astronomia delle alte energie, ottenuto grazie ad un progetto nazionale come BeppoSax, portato poi avanti da AGILE, ma anche con XMM e Integral con ESA e Swift e Fermi in bilaterale con la Nasa.
E ovviamente le molte missioni interplanetarie, europee (Rosetta, Mars Express, Venus Express per citarne alcune), in trilaterale come la missione CASSINI, condivisa con NASA e ESA, o in bilaterale come sulla sonda NASA Dawn.
Tutto ciò mette insieme scienza e capacità industriale, come per l’osservazione della Terra, anche questa una scuola di eccellenza italiana sostenuta in programmi ESA come ERS 1 e 2, o nazionali come SRTM e Cosmo Skymed.
Ma tutto quanto abbiamo citato è frutto di scelte avvenute tra la fine degli anni ’80 e il primissimo inizio degli anni 2000. Dopo lo spazio italiano sembra essersi arrestato, se escludiamo l’interesse industriale e militare per Cosmo SkyMed e quello, sempre più militare, per il volo umano.
Alla fine degli anni ’90 la quota dedicata alla scienza nel bilancio ASI era il 20%, negli primi anni di questo decennio è scesa al 4%. La scienza spaziale italiana di fatto si esaurisce nei fondi destinati all’ESA. Ma la scienza è cultura, è conoscenza, un paese che vuole restare evoluto non può non investire nella sua crescita culturale. Non tutto può esaurirsi in Europa, non tutto può esaurirsi nel solo aspetto tecnologico.