Avete presente la celeberrima fotografia di Steve McMurry della dodicenne afghana con gli occhi verdi, apparsa nel 1985 sulla copertina del National Geographic e ritrovata 17 anni dopo – di nuovo per l’obiettivo di McMurry – fra le montagne vicino a Tora Bora? Ebbene, anche l’astronomia ha la sua “Ragazza afgana”, altrettanto iconica, immortalata da un “fotografo” altrettanto celebre: l’immagine della Nebulosa dell’Aquila, i cosiddetti “Pilastri della Creazione”, scattata nel 1995 dal telescopio spaziale Hubble.
Proprio come McMurry, anche Hubble è tornato a fotografare il suo soggetto mozzafiato a distanza di anni, diciannove a voler essere precisi. Il velo è stato tolto oggi per la prima volta a Seattle, nel corso del 225esimo meeting della American Astronomical Society, in occasione dei 25 anni di Hubble. E la nuova immagine mostra che qualcosa è cambiato.
Che cosa? Non si tratta soltanto delle conseguenze ovvie del progresso tecnologico permesso dalla nuova camera WFC3, come i miglioramenti in definizione, ampiezza del campo ed estensione delle bande di frequenza, che nella nuova immagine comprendono anche il vicino infrarosso. È cambiato qualcosa proprio su M16, nella nebulosa stessa. Se nel caso di Sharbat Gula – questo il nome della studentessa dallo sguardo indimenticabile di McMurry – a cambiare il volto del soggetto sono stati i segni del tempo e le asperità della vita, ad alterare in appena due decenni – un battito di ciglia, in termini astronomici – i Pilastri della Creazione sono i venti di materia ionizzata generati dall’ammasso stellare presente nella nebulosa stessa. Venti in grado di spazzare via il gas presente fra i pilastri stessi, al punto da suggerire agli astronomi di ribattezzarli piuttosto “pilastri della distruzione”.
Scolpiti dal vento stellare, i Pilastri della Creazione sono dunque una sorta di «versione spaziale delle inconfondibili rocce a forma di dita che caratterizzano la Monument Valley», spiega ai microfoni di Media INAF Paul Scowen, l’astronomo dell’Arizona State University di Tempe che nel 1995, insieme al collega Jeff Hester, coordinò la prima serie d’osservazioni della Nebulosa dell’Aquila con Hubble.
«Il carattere transitorio di queste strutture m’impressiona. Il processo d’erosione avviene praticamente sotto ai nostri occhi. La foschia bluastra e spettrale che avvolge il contorno dei pilastri è in realtà materia resa incandescente al punto da farla evaporare nello spazio. Abbiamo colto questi pilastri», dice Scowen, «in un momento assai particolare e di breve durata della loro evoluzione».
L’immagine originale suscitò, e continua a suscitare, reazioni d’ogni genere in un pubblico altrettanto eterogeneo, comprese quelle degli immancabili complottisti convinti d’intravedere, nel pattern disegnato dal gas interstellare, niente meno che il volto di Gesù. Nulla però a confronto dell’emozione provata dallo stesso Scowen quando per la prima volta gli arrivarono i dati della sequenza di esposizioni da comporre in un’unica immagine: «Telefonai a Jeff Hester e gli dissi: “devi correre subito qui”. Disposte le fotografie sul tavolo, restammo estasiati innanzi a tutti quegli incredibili dettagli che si presentavano per la prima volta ai nostri occhi».
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