Era il 10 maggio del 2009 quando alcuni fotoni provenienti dagli abissi del tempo, dopo un viaggio durato circa sette miliardi di anni, andarono a concludere la loro avventura schiantandosi contro i rivelatori per raggi gamma a bordo del satellite Fermi della NASA, in orbita attorno alla Terra. Luogo di provenienza delle impalpabili particelle, il GRB090510: un lampo di raggi gamma – dunque uno dei fenomeni più violenti dell’universo, big bang a parte – molto distante (a redshift 0.903, per dirla con i cosmologi), nonché uno fra i più brillanti mai rilevati.
Particelle impalpabili, dicevamo, ma pur sempre testimoni – solo a saperle interrogare – di cose che noi umani non potremmo neanche immaginare. Cose come la schiuma quantistica, quell’altrettanto impalpabile porosità del vuoto spaziotemporale all’interno della quale, suggeriscono alcuni modelli, le fondamenta stesse della fisica – dalla relatività generale alla simmetria di Lorentz – cominciano a traballare. Ebbene, fra coloro che le sanno interrogare, e che sanno quali domande porre a questi fotoni viaggiatori, c’è Giovanni Amelino-Camelia.
Tra i primi al mondo a ipotizzare la presenza d’un effetto misurabile della quantizzazione dello spaziotempo sulle particelle relativistiche (in un lavoro pubblicato su Nature nel 1998 dal titolo “Tests of quantum gravity from observations of big gamma-ray bursts”), Amelino-Camelia è oggi professore al dipartimento di fisica dell’Università di Roma “La Sapienza”. Ed è fra i coautori d’uno studio, pubblicato sull’ultimo numero di Nature Physics, nel quale per la prima volta, grazie proprio all’osservazione compiuta da Fermi dei fotoni prodotti dal lampo gamma GRB090510, viene posto un limite inferiore alla scala energetica alla quale deve presentarsi, se la schiuma quantistica davvero esiste, uno degli effetti dovuti alla sua fuzziness: la perturbazione della velocità della luce nel vuoto. Altrettanto rilevante, questo limite inferiore risulta piuttosto elevato: 2.8 volte l’energia di Planck. Un valore sufficiente a escludere alcuni modelli. E per comprendere qualcosa di più sulla rilevanza di questo risultato, Media INAF ha intervistato lo stesso Amelino-Camelia.
Professor Amelino-Camelia, partiamo dalla responsabile dei risultati descritti nel vostro studio: che cos’è, questa “schiuma”?
«Con schiuma spaziotempolare si denomina la descrizione fondamentale dello spaziotempo, quella che dovrà emergere dall’unificazione fra meccanica quantistica e descrizione generale relativistica dei fenomeni gravitazionali. Si tratta di un concetto complesso, ma un’analogia può forse aiutarci a intuirlo. Consideriamo per esempio la nostra attuale descrizione geometrica dello spaziotempo: ricorda un po’ la geometria di un telo ideale. Un telo che risponde alle sollecitazioni piegandosi, divenendo più teso, restando però “liscio”, caratterizzato da una geometria continua, fluida. Ebbene, noi ci aspettiamo che questa sia solo una prima approssimazione, un’immagine rozza. In una descrizione microscopica più accurata, quel telo dovrebbe essere in un certo senso poroso, come un schiuma. E con porosità la cui grana cambia rapidamente e drammaticamente quando le distanze si fanno corte».
In che modo fenomeni come i lampi di raggi gamma possono dirci se questa schiuma è realtà?
«L’immagine della geometria dello spaziotempo che ho appena suggerito descrive uno scenario che comporta inevitabilmente alcune conseguenze sul modo in cui si propagano le particelle, visto che la loro propagazione deve conformarsi, è ovvio, alle proprietà dello spaziotempo in cui si propagano. Ora, quelli che ci attendiamo sono effetti piccolissimi: per la propagazione su distanze terrestri, per esempio, non è possibile che questi effetti si accumulino a livello osservabile. Ma se la propagazione avviene su distanze cosmologiche, com’è appunto il caso dei lampi di raggi gamma, l’effetto cumulativo potrebbe essere osservabile».
E lo è?
«Le previsioni su quanto la schiuma spaziotemporale condizioni la propagazione di particelle su distanze cosmologiche hanno forte dipendenza dai diversi modelli ai quali si rifanno. C’è quindi una gamma di predizioni, da quelle dei modelli più ottimistici (che contemplano effetti comunque ridottissimi ma meno deboli che in altri modelli) via via, a scendere, a quelle dei modelli più pessimistici, che dunque prevedono effetti ancora più deboli. Fino a oggi non si era mai riusciti a raggiungere nemmeno la sensibilità necessaria a mettere alla prova i modelli più ottimistici, quindi l’intero programma di ricerca era in limbo».
Ora cosa cambia, con il risultato descritto nel vostro articolo?
«La nostra analisi sblocca la situazione: abbiamo sviluppato una strategia di analisi dei dati del telescopio Fermi che consente d’escludere i modelli di schiuma spaziotemporale più ottimistici. Un risultato quindi “negativo”, nel senso che falsifica alcuni modelli, ma che rappresenta non di meno una tappa importante, una milestone: mostra che questa ricerca si può fare. In altre parole, abbiamo fatto compiere a questo programma di ricerca il primo passo. Ora finalmente si può avviare il meccanismo salutare della scienza, con successivi miglioramenti della qualità dei dati e raffinamenti delle tecniche di analisi che porteranno, prima o poi, alla scoperta della schiuma spaziotemporale».
Tutto grazie a un lampo gamma… ma allargando lo sguardo anche ad altre sorgenti oltre ai GRB, oppure ad altri strumenti oltre a Fermi, quali sono concretamente i passi che ci attendono, le prospettive più interessanti per lo studio della struttura quantistica dello spaziotempo attraverso osservazioni astrofisiche e cosmologiche?
«Per questo genere di studi, l’ideale sono proprio telescopi spaziali come Fermi, ma anche la realizzazione di un osservatorio terrestre come il CTA, il Cherenkov Telescope Array, apre prospettive interessanti. Certo, un nuovo telescopio di “tipo Fermi”, anche se dovesse migliorare ad esempio solo di un fattore 3 in sensibilità e ampiezza del range d’energie rilevabili, potrebbe fare davvero la differenza per questo programma di ricerca: potremmo essere ad un passo da una scoperta d’importanza fondamentale, che rischiamo di mancare se non viene realizzato, in qualche forma, una sorta di “telescopio Fermi upgraded”, potenziato. Con il CTA si aprono comunque prospettive interessanti: avremo dati su fotoni d’energie più elevate rispetto a quelli rilevati da Fermi, e questo aiuta gli obiettivi dello studio della schiuma spaziotemporale. Anche se, tipicamente, saranno dati derivati da sorgenti relativamente più vicine rispetto ai gamma-ray bursts più lontani osservati da Fermi. Insomma, con il CTA ci sarà da gestire una situazione un po’ di compromesso, occorrerà vedere se l’accesso a energie più alte sarà sufficiente a compensare il minor accumulo d’effetti lungo la propagazione».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature Physics l’articolo “A Planck-scale limit on spacetime fuzziness and stochastic Lorentz invariance violation“, di Vlasios Vasileiou, Jonathan Granot, Tsvi Piran e Giovanni Amelino-Camelia