L’urlo nero della galassia è un vento relativistico che si leva impetuoso dal suo cuore. Prende le mosse dal disco d’accrescimento fatto di materia bollente, milioni di gradi, che ruota attorno all’enorme buco nero supermassiccio centrale. Infuria verso l’esterno a velocità inconcepibile, un quarto di quella della luce, spazzando via con la sua onda d’urto tutto ciò che incontra lungo il cammino. Creando attorno a sé il deserto, una landa desolata di spazio interstellare che s’estende per centinaia d’anni luce, entro la quale non potrà nascere più nulla.
Questa la scena apocalittica ricostruita da un team d’astrofisici guidati dal marchigiano Francesco Tombesi, ricercatore alla NASA e associato INAF, giustapponendo i dati raccolti dai telescopi spaziali Herschel e Suzaku, europeo il primo (ESA) e frutto d’una collaborazione fra Giappone e Stati Uniti il secondo. Descritta in dettaglio nell’ultimo numero di Nature (numero del quale s’è guadagnata la copertina), la scena si svolge – o meglio si svolgeva, considerando la distanza spaziotemporale – a 2.3 miliardi di anni luce da noi, al centro d’una galassia targata IRAS F11119+3257.
Si tratta d’una galassia piuttosto particolare: una ULIRG (Ultra Luminous Infrared Galaxy), la definiscono gli astronomi, ovvero una galassia estremamente luminosa in infrarosso. Ma il “piccolo” Attila che si ritrova nel cuore – un buco nero supermassiccio di circa 16 milioni di masse solari – è all’origine d’un fenomeno più generale: quello appunto dello spegnimento sul nascere della formazione stellare per carenza di “combustibile”, rimosso dalle sferzate del vento relativistico.
Un fenomeno sulla cui esistenza gli astronomi avevano già raccolto numerosi indizi, senza però mai riuscire ad addossarne la responsabilità ai buchi neri centrali delle galassie nelle quali avviene. Ora invece la svolta: finalmente è stato possibile stabilire in modo inequivocabile il collegamento mancante, quello fra i venti (outflows) di gas molecolare a grande scala, osservati in infrarosso con il satellite Herschel dell’ESA, e i venti relativistici (ultra-fast outflows) emessi dai buchi neri che ne sono all’origine, osservati in banda X con Suzaku.
«Per la prima volta siamo riusciti a confrontare questi due tipi di gas, a vedere che il buco nero riesce a produrre questi venti – inizialmente a velocità molto elevate, fino al 25 percento della velocità della luce – che poi vanno a impattare il mezzo interstellare a distanze estremamente grandi, fino a 1000 anni luce. E questo provoca una riduzione del materiale che sarebbe servito a formare nuove stelle», spiega Tombesi a Media INAF. «Quello che mancava era la prova d’una connessione diretta. Noi siamo andati a scovare la presenza del vento nelle parti centrali, dunque direttamente connesso con il buco nero. E abbiamo visto che la sua energia iniziale è sufficiente a spiegare la formazione dei venti molecolari freddi a scale più grandi».
Un lavoro da investigatori, quello condotto dal team di Tombesi. Per inchiodare definitivamente il colpevole hanno prima dovuto scagionare gli altri “sospetti”, scartando le ipotesi alternative. «La prima era che, essendo questa una galassia con un tasso di produzione stellare molto elevato, potessero essere i venti generati dalle stelle stesse, o dall’esplosione delle supernove, a influenzare il gas molecolare bloccando la produzione di ulteriori stelle. Ma in questo caso», osserva Tombesi, «la formazione stellare non era sufficiente a giustificare venti così potenti. L’altra ipotesi era che potesse trattarsi d’un getto molto collimato a velocità relativistica, prodotto anch’esso dal buco nero. Ma questa galassia non presenta alcun getto. Dunque il responsabile non poteva che essere il buco nero supermassiccio».
Ora che il colpevole è stato identificato, sorge però un altro dubbio. Anche la Via Lattea, la nostra galassia, ospita al centro un buco nero supermassiccio. Dovesse mai – per qualche improbabile evento – trasformarsi in un Attila pure lui, c’è il rischio che i venti prodotti possano spegnere il nostro Sole? «No, non penso che sia possibile», ci tranquillizza Tombesi, «perché una volta che il gas freddo si è compattato e ha iniziato a formare stelle, l’effetto non è più così forte. Le stelle, essendo molto compatte, hanno un’area ridotta, quindi l’influenza del vento non sarebbe molto elevata. Al contrario di quanto avviene sul gas rarefatto, dunque sul combustibile delle future stelle». Insomma, il Sole e le altre stelle della nostra galassia rimarrebbero comunque accese: tutt’al più, rischierebbero di diventare una specie in via d’estinzione.
Per saperne di più:
- Ascolta l’intervista di Media INAF a Francesco Tombesi
- Leggi su Nature l’articolo “Wind from the black-hole accretion disk driving a molecular outflow in an active galaxy“, di F. Tombesi, M. Meléndez, S. Veilleux, J. N. Reeves, E. González-Alfonso e C. S. Reynolds