C’è stata un’epoca, quando l’universo aveva circa un quarto della sua età attuale (oggi fissata a 13,7 miliardi di anni) in cui le galassie hanno ‘messo il turbo’ e sfornato nuove stelle ad un ritmo molto più elevato di quanto non facciano oggi. Il perché di questo ‘baby boom’ stellare non è ancora ben chiaro agli astronomi che, date le enormi distanze in gioco, hanno parecchie difficoltà nello studiare galassie così lontane nel tempo: ovviamente, questi oggetti celesti ci appaiono molto piccoli e molto deboli, ma in più gran parte delle giovani stelle al loro interno non può essere osservata direttamente, perché la radiazione prodotta viene assorbita dal gas e dalle polveri che le circondano e riemessa alle lunghezze d’onda del lontano infrarosso.
Uno dei migliori strumenti al mondo per questo tipo di indagini è senza dubbio ALMA, l’Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array dell’ESO, che si trova nel nord del Cile, sull’altopiano di Chajnantor a 5.000 metri di altitudine. I dati raccolti dalle antenne di ALMA possono essere combinati insieme ed ottenere immagini di risoluzione altissima, migliore di un decimo di secondo d’arco. Tuttavia, anche spremendo al massimo questo gioiello della tecnologia, non riusciamo a studiare in modo dettagliato remote galassie nel pieno della loro attività di formazione stellare.
Ma, a volte, dove non arriva la nostra tecnologia, c’è la natura stessa a fornirci un prezioso aiuto. «In una recente conferenza, gli scienziati del team ALMA hanno presentato dei dati utilizzati per testare le capacità scientifiche dello strumento, e tra essi c’era l’immagine di un sistema soggetto al fenomeno dello strong lensing gravitazionale, che ha immediatamente attirato il nostro interesse», ricorda Simona Vegetti, ricercatrice post-doc presso Il Max Planck Institute für Astrophysik (MPA), in Germania. «Grazie a questo effetto, la radiazione della galassia lontana è amplificata di ben 17 volte, ed è proprio grazie ad esso che riusciamo a vederla. Sfruttando le osservazioni a grande risoluzione angolare di ALMA, abbiamo così avuto la possibilità di indagare e osservare per la prima volta i dettagli nella distribuzione della sua polvere».
Lo strong lensing gravitazionale è l’effetto prodotto da un oggetto celeste di grande massa, come ad esempio una galassia, quando si trova lungo la linea di vista tra una sorgente luminosa e l’osservatore. Secondo la Teoria della Relatività Generale formulata da Einstein infatti, qualunque corpo celeste dotato di massa provoca una deflessione dei raggi luminosi che passano nelle sue vicinanze per effetto della sua forza di attrazione gravitazionale. In caso di particolare allineamento tra sorgente luminosa, “lente gravitazionale” e osservatore, la luce della sorgente viene focalizzata, analogamente a quanto succede quando si utilizza una normale lente, e la sorgente ci appare molto più luminosa di quanto sia in realtà.
La natura però, ci da sì una mano, ma non può far miracoli: la distribuzione di massa nella “lente gravitazionale” non è omogenea, e così l’immagine della galassia distante, denominata SDP.81, è pesantemente distorta. Quello che si può fare per ovviare al problema è ricavare come è distribuita la materia nella lente e, in base a queste informazioni, ricostruire l’immagine vera – ossia non distorta – della galassia amplificata. «I precedenti tentativi in questo senso assumevano che le galassie amplificate dal lensing fossero piatte e regolari», spiega Matus Rybak dell’MPA, che ha effettuato ricostruzione al computer dell’immagine della galassia SDP.81. «Questa ipotesi sembra risultare una pessima approssimazione per la struttura di una galassia in piena attività di formazione stellare, e le immagini non ancora elaborate di ALMA avevano già dato indizi chiari che questa sorgente è assai complessa. Il nuovo metodo che abbiamo sviluppato, più generale, si adatta decisamente meglio a sistemi irregolari».
Un punto di vista confermato dalla immagine finale della galassia SDP.81 ricostruita con questo metodo, che mostra come la formazione stellare sia concentrata in tre regioni distinte di questo oggetto celeste. «E’ la prima volta che siamo in grado di individuare strutture nella emissione di polvere da una galassia distante 11 miliardi di anni luce su scale più piccole di 150 anni luce» sottolinea Simona Vegetti. Il periodo cosmico in cui la stiamo osservando è proprio quello in cui, tipicamente, le galassie stavano dando il loro meglio nel formare nuove stelle. E anche SDP.81 si è rivelata all’altezza delle spettative, creando ogni anno stelle per una massa complessiva pari a circa 300 volte quella del nostro Sole. In confronto, nella nostra Galassia, l’attuale tasso di formazione stellare è circa cento volte più basso. Ma questa accurata ricostruzione sta fornendo agli astronomi anche altre preziose informazioni, indicando che la galassia potrebbe essere costituita da un disco rotante e un nucleo centrale visti quasi di taglio o che si tratti di un sistema più complesso dove due galassie si stanno fondendo, ma in cui i singoli componenti sono ancora visibili. Quale sia il vero scenario ce lo diranno, presto, i risultati di ulteriori indagini, condotte sempre con ALMA, che sono in corso di elaborazione.
Per saperne di più:
- l’articolo ALMA imaging of SDP.81 I. A pixelated reconstruction of the far-infrared continuum emission di M. Rybak, J. P. McKean, S. Vegetti, P. Andreani S. D. M. White sottomesso per la pubblicazione sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society