Più di un decennio fa, Samir Mathur, fisico di origine indiana e professore alla Ohio State University, utilizzò i principi della teoria delle stringhe per dimostrare che i buchi neri sono in realtà grovigli di stringhe cosmiche. Questa teoria – che prevede il buco nero dotato di una superficie definita, seppur “irregolare” – ha implicazioni interessanti, sul genere che la Terra potrebbe già stare cadendo in un buco nero senza che ce ne accorgiamo. Ma, soprattutto, la cosiddetta “teoria della fuzzball” ha contribuito a risolvere alcune contraddizioni nel modo in cui i fisici cercano di descrivere i buchi neri.
Nei mesi scorsi un gruppo di ricercatori ha sviluppato le idee di Mathur, giungendo alla conclusione che il “gomitolone” – insomma: il buco nero secondo questo approccio – non ha una superficie sfilacciata e indistinta ma, al contrario, netta e letale, come potrebbe risultare, agli occhi di un ipotetico assalitore, un muro di fuoco attorno a una guarnigione. Il riferimento è proprio alla recentissima teoria del firewall, secondo cui in prossimità dell’orizzonte degli eventi – che corrisponde alla “zona di cattura” del buco nero – un osservatore sperimenterebbe temperature via via più elevate. Una zona di transizione altamente ustionante, dunque, ma anche alquanto imbarazzante, perché metterebbe in discussione altri capisaldi della fisica (vedi questo articolo in proposito su Media INAF).
In questi giorni la controversia scientifica fuzzball-fireball si riaccende con un nuovo articolo che Samir Mathur ha appena depositato nell’archivio libero arXiv in attesa di trovare un vero editore. Nel suo nuovo studio, lo scienziato contesta la teoria firewall, dimostrando matematicamente che i buchi neri non sono necessariamente così forieri di sventura come si è soliti dipingerli. Anzi: li si potrebbe addirittura considerare alla stregua di benevola macchina per… fare le fotocopie. In effetti, Mathur e il suo team ritengono che quando la materia tocca la “superficie” di un buco nero si trasformi in un ologramma, una copia quasi perfetta di sé che continua ad esistere come prima.
In estrema sintesi, il fatto che la copia sia “perfetta” o “quasi perfetta” è l’asse su cui ruota la discussione tra, rispettivamente, fautori e contrari della teoria firewall. Una disputa che cerca in qualche modo di risolvere il paradosso dell’informazione, ovvero la perdita di informazione che si verificherebbe ogni volta che la materia valica la frontiera di un buco nero, portando a una diminuzione dell’entropia dell’Universo e, in sostanza, contraddicendo la termodinamica.
Ma anche una disputa dal sapore epistemologico poiché, secondo Mathur, riguarda drasticamente la questione se i fisici possano o meno accettare il fatto che i buchi neri, così come il resto dell’universo, siano imperfetti.
«Non esiste un buco nero perfetto, perché ogni buco nero è diverso dall’altro», dice Mathur basandosi sulla convinzione che la materia inghiottita un buco nero non venga distrutta, ma vada a far parte del buco nero stesso. È come se, spiega il ricercatore ricorrendo a una metafora biochimica, una nuova sequenza genica fosse inserita nel suo DNA. Ciò significa che ogni buco nero è un prodotto peculiare della materia che casualmente si imbatte in esso. Anche i buchi neri, verrebbe da dire, sono quello che mangiano: il problema è capire se e come lo digeriscano.