Pensate che la missione di un astronauta finisca al ritorno sulla Terra? Non è così. Oltre a svolgere numerosi esperimenti sulla Stazione Spaziale Internazionale, gli astronauti vengono sottoposti anche a diversi test nelle settimane successive il ritorno. Il tutto per verificare quanto il corpo umano risenta dei lunghi mesi passati in orbita attorno al nostro pianeta (la ISS si trova a 400 chilometri dalla superficie): osteoporosi, nausea spaziale, perdita di massa ossea e muscolare, problemi cardiaci e cecità spaziale, diabete. Questo e molto altro – purtroppo – è stato riscontrato nel corso delle recenti missioni spaziali. Gli astronauti, coma la nostra Samantha Cristoforetti, devono “combattere” ogni giorno con microbi spaziali, tempeste solari, radiazioni, assenza di gravità e polvere tossica. La salute viene messa a serie rischio, ma di questo gli astronauti sono consapevoli e fanno anche da “cavie” per gli esperimenti.
Tra le 9 missioni scientifiche affidate alla prima astronauta italiana c’era “Drain Brain”, incentrato sullo studio della circolazione cerebrale in condizioni di microgravità. Lo scopo è quello di migliorare le scarse conoscenze sulla fisiologia umana del ritorno venoso cerebrale in condizioni di microgravità e realizzare un nuovo strumento diagnostico applicabile a pazienti affetti da malattie neurodegenerative.
Non solo l’ESA e l’ASI portano avanti esperimenti fisiologici sugli astronauti, ma anche gli americani della NASA e i russi della Roscosmos i quali stanno studiando – nello specifico – gli effetti dello spostamento dei fluidi verso la parte superiore del corpo (tronco e testa) nello spazio e come questo adattamento al volo spaziale colpisca soprattutto la vista. Più di due terzi dei membri dell’equipaggio della NASA hanno subito alterazioni oculari durante i voli spaziali. Questo è attualmente uno dei problemi medici ad alta priorità per l’agenzia americana. Per questo motivo lo studio sullo spostamento dei fluidi, come gli altri in corso, sono preparatori al viaggio che porterà l’uomo su Marte (auspicabilmente entro qualche decennio). Ma questa missione cosa comporterà? Ci vorrebbero quasi sei mesi per arrivare sul Pianeta rosso e altrettanti per tornare (se mai un giorno sarà possibile), ma in tutto la missione potrebbe durare anche 30 mesi. Il corpo umano dovrà affrontare tempeste solari, asteroidi e microgravità (che su Marte il 38% di quella sulla Terra) e quindi il sistema scheletrico e muscolare sarebbe sottoposto a parecchio stress.
In particolare, l’indagine sullo spostamento dei fluidi nel corpo umano è parte della missione di un anno che si sta svolgendo sulla Stazione Spaziale Internazionale. L’esperimento verrà eseguito sugli astronauti Scott Kelly e Mikhail Kornienko, due veterani dei voli nello spazio. Si tratta di uno studio «molto complesso, perché è una combinazione di tre ricerche indipendenti con obiettivi simili anche se specifici», ha detto Michael Stenger, della NASA. «Stiamo lavorando in collaborazione con la Roscosmos sulla Stazione Spaziale Internazionale per condurre le indagini e stiamo usando più membri dell’equipaggio e tempo che in passato».
Lo studio punta a verificare l’ipotesi secondo cui il normale passaggio dei fluidi alla parte superiore del corpo in assenza di peso contribuisce all’aumento della pressione endocranica e a diminuire la capacità visiva degli astronauti. I problemi – secondo gli esperti – possono verificarsi anche quando gli stessi fluidi tornano alla parte inferiore del corpo usando una tuta speciale per l’applicazione di pressione negativa (“lower body negative pressure”) chiamata Chibis e progettata dagli ingegneri russi. Se indossata, la tuta riporta il sangue verso le gambe e le estremità inferiori: gli astronauti usano Chibis soprattutto durante l’ultima settimana di missione nello spazio per riabituare il corpo al peso che si avverte sulla Terra. Se però venisse dimostrata la sua utilità medica per il controllo del movimento dei fluidi corporei, potrebbe essere indossata dall’inizio dei viaggi spaziali.
Questo studio è fondamentale e apre la strada a ricerche simili che verranno effettuate in futuro: per la prima volta grandi strumentazioni mediche vengono spostate dal modulo statunitense a quello russo nella ISS proprio per questi esperimenti. Questo perché la tuta Chibis si trova nel modulo di servizio Zvezda, dal lato russo della Stazione spaziale, e non può essere spostata perché la sua apparecchiatura di monitoraggio medico e di downlink dei dati sono bloccati e impossibili da spostare. Portare le apparecchiature dal lato russo comporta anche il dover modificare – banalmente – tutte le prese elettriche.
Insomma una sfida medica e ingegneristica, che però porterà benefici anche ai pazienti sulla terra in futuro. Come sarà possibile? Invece di optare per procedure invasive per misurare la pressione intracranica, come una puntura lombare o un catetere intraventricolare (perforazione del cranio), l’equipaggio spaziale ha il compito di sperimentare nuove tecniche e tecnologie non invasive nello spazio. Ad esempio, attraverso l’uso dei dispositivi cerebral and cochlear fluid pressure (CCFP) e distortion product otoacoustic emissions (DPOAE) – che in futuro potranno essere disponibili anche per i pazienti sulla Terra che soffrono di aumento della pressione intracranica.