Gli astronomi che lo hanno scoperto giurano che, a guardarlo in foto, è tale e quale il nostro Giove quand’era ancora in fasce. Il baby-sosia, battezzato prontamente 51 Eridani b, ha un peso alla nascita pari a circa il doppio della massa del gigante del Sistema solare, e in effetti i tratti in comune non mancano. A scanso d’equivoci, diciamo però subito che la “fotografia” in questione non è la suggestiva immagine artistica – con tanto di grande macchia rossa – che vedete qui a fianco. E che il “tale e quale” va preso con le molle, se non altro perché di istantanee del nostro Giove neonato purtroppo proprio non se ne trovano, nemmeno sui social.
Fatte queste doverose premesse, la scoperta è comunque notevole. E quella che abbiamo chiamato un po’ impropriamente fotografia, ma che è comunque un’autentica immagine diretta (quel puntino giallo-rosso che vedete apparire e sparire nell’animazione qui sotto a sinistra, evidenziato dalla freccia), merita ampiamente le pagine che le ha dedicato l’ultimo numero di Science. Vediamo perché.
Anzitutto, per la tecnologia osservativa e il virtuosismo dello scatto in sé. Mentre di “ombre” di esopianeti – ovvero della parziale occultazione che producono quando transitano innanzi alla loro stella madre – ne abbiamo ormai viste a migliaia (campione di questo tipo d’osservazioni è stato il telescopio spaziale Kepler della NASA), catturarne la luce diretta rappresenta ancora una notevole sfida. In questo caso, per esempio, la luce della stella madre – 51 Eridani, situata a circa 100 anni luce da noi in direzione della costellazione di Eridano – è circa un milione di volte più intensa di quella del sosia di Giove. Talmente accecante che, sebbene già quattro strumenti di generazione precedente ne avessero perlustrato a fondo i dintorni a caccia di mondi, nessuno s’era accorto che lì c’era un pianeta.
Per stanarlo e immortalarlo c’è voluto Gemini Planet Imager (GPI), uno strumento complesso e imponente – è grande quanto un’utilitaria, e comprende sia un sistema d’ottica adattiva avanzata che un sofisticato coronografo – installato sul telescopio da otto metri Gemini South, in Cile. E se per GPI l’osservazione di 51 Eridani b rappresenta il battesimo del fuoco, essendo il primo mondo che ha scoperto, lo scatto ottenuto è a sua volta da record: fra tutti i (pochi) esopianeti di cui si abbia un’immagine diretta, questo è il più simile ai pianeti del nostro Sistema solare, nonché probabilmente quello con massa minore.
Ma “simile” in che senso? Della massa, stimata attorno al doppio di quella di Giove, già abbiamo detto. La distanza dalla stella madre è 13 volte quella che separa la Terra dal Sole, dunque se 51 Eridani b si trovasse nel Sistema solare orbiterebbe più o meno a metà strada tra Saturno e Nettuno. La temperatura, scrivono gli scienziati, si aggira attorno ai 430 gradi: alquanto bassa per un esopianeta di cui sia stata catturata la luce diretta, ma abbondantemente sufficiente a fondere il piombo, dunque ben al di sopra di quella che possiamo trovare nelle atmosfere dei nostri giganti gassosi. Il “piccolo”, c’è da dire, avrà comunque tutto il tempo per raffreddarsi.
Ciò che rende 51 Eridani b davvero affine ai pianeti di casa nostra è invece la composizione dell’atmosfera. In particolare, è la quantità di metano misurata, grazie alle osservazioni in infrarosso, nello spettro d’emissione termica (vedi immagine sopra, riquadro a destra) del pianeta ad aver catturato l’attenzione degli astronomi. Mai si era vista prima una firma così intensa di questa molecola nell’atmosfera d’un esopianeta. Ed è un’abbondanza tutt’altro che scontata. «Nelle fredde atmosfere dei pianeti giganti del nostro Sistema solare, il carbonio si trova sotto forma di metano, a differenza di quanto accade per la maggior parte dei pianeti extrasolari, dove il carbonio è stato rilevato perlopiù sotto forma di monossido di carbonio», osserva infatti uno fra i coautori dell’articolo, Mark Marley, dell’Ames Research Center della NASA. «Avendo anch’esso un’atmosfera ricca di metano, 51 Eridani b è dunque sulla buona strada per diventare un cugino del nostro Giove».
Una “buona strada” che si annuncia anche piuttosto lunga. L’altra caratteristica che ha suscitato l’interesse del team guidato da Bruce Macintosh, ricercatore al Kavli Institute for Particle Astrophysics and Cosmology e primo autore dello studio, è infatti la giovanissima età della stella, e di conseguenza del pianeta: appena 20 milioni di anni. Praticamente nulla, in termini astronomici. Come ha efficacemente sottolineato un altro fra i coautori dell’articolo, Eric Nielsen, ricercatore postdoc al SETI Institute, «prima ancora che questa stella nascesse, l’ultimo dei dinosauri era già morto da 40 milioni di anni». Un’occasione preziosa, dunque, per studiare quel meccanismo di formazione planetaria che gli astronomi chiamano come cold start (relativamente fredda lenta, in opposizione alla hot start, calda e rapida) all’origine dei pianeti del nostro Sistema solare.
Per saperne di più:
- Leggi su Science l’articolo “Discovery and spectroscopy of the young Jovian planet 51 Eri b with the Gemini Planet Imager“, di B. Macintosh et al.