Mettiamo che, invece di servire loro la solita cena, vogliate stupire i vostri ospiti con un bel Sistema solare esterno come si deve, con tanto di fascia di Kuiper e, ovviamente, tre o quattro giganti gassosi. Come vi muovereste? Semplice, un’occhiata in rete e… E invece no, purtroppo non è così facile. Alla voce di Wikipedia ‘nebular hypothesis’, per dire, dov’è illustrata quella che è probabilmente l’ipotesi a oggi più condivisa per spiegare l’evoluzione del Sistema solare, nel paragrafo sulla formazione dei pianeti giganti, trovandosi a descrivere il passaggio successivo alla fase embrionale gli estensori alzano le braccia: quello che accade, scrivono, non è del tutto chiaro.
E quel “non è del tutto chiaro” rischia di essere un eufemismo. «I modelli correnti che simulano la formazione dei pianeti giganti gassosi», spiega a Media INAF Harold Levison, del Southwest Research Institute e del Solar System Exploration Research Virtual Institute della NASA, primo autore di uno studio appena pubblicato su Nature, «falliscono nel formare Giove e Saturno entro i tempi scala necessari per spiegare la massa elevata delle loro atmosfere di idrogeno ed elio». In altre parole, quello che accadeva è che, inserendo nel computer tutti i parametri e avviando i programmi di simulazione, non c’era verso di far saltare fuori una configurazione simile a quella che caratterizza il nostro Sistema solare esterno.
Ora però Levison e colleghi sembrano esserci riusciti. E gli “ingredienti segreti” sono due: dimensioni e tempo. Le dimensioni sono quelle dei “sassolini” – pebbles, li chiamano gli astronomi, frammenti di pochi centimetri, massimo un metro – che aggregandosi formano gli embrioni planetari, e a seguire corpi via via più grandi. Quanto al tempo, il punto cruciale è che non si possono prendere scorciatoie. «Abbiamo dimostrato come Giove e Saturno si sarebbero potuti formare molto rapidamente se la loro crescita fosse stata dominata da una pioggia di piccoli corpi, dal diametro di circa 10 cm, ma abbiamo anche mostrato», sottolinea Levison, «che la formazione di questi piccoli corpi doveva essere sufficientemente lenta da permettere agli embrioni planetari di interagire gravitazionalmente».
In particolare, ciò che i modelli mostrano è che un processo di aggregazione realizzato tramite collisioni fra grossi planetesimi (corpi intermedi dai 100 ai 1000 km di diametro), che pure avrebbe il vantaggio di portare in tempi brevi alla formazione dei pianeti giganti, finisce per essere troppo breve. E dunque con esiti diversi da quelli cercati. «Se i piccoli corpi si formano troppo in fretta, la formazione planetaria termina con qualche centinaio di “terre” ricche in ghiaccio», chiarisce Katherine Kretke, coautrice dello studio. «Gli embrioni planetari hanno bisogno di tempo per rimuovere, tramite interazioni gravitazionali, la maggior parte dei loro rivali. Questo è il motivo per cui, alla fine, nel Sistema solare si sono formati solo due pianeti giganti gassosi».
Con il nuovo modello messo a punto da Levison e colleghi, invece, quelli che le simulazioni disegnano via via sullo schermo sono sistemi solari esterni virtuali popolati da un numero di giganti gassosi variabile da uno a quattro. «Per quanto ne so», osserva Levison, «questo è il primo modello che riesce a spiegare la formazione del Sistema solare esterno: due pianeti giganti gassosi, Urano e Nettuno, e la fascia primordiale di Kuiper».
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Growing the gas-giant planets by the gradual accumulation of pebbles”, di Harold F. Levison, Katherine A. Kretke e Martin J. Duncan