Un’attività vulcanica senza precedenti. E’ questo che spiegherebbe l’estinzione di massa delle specie viventi sulla Terra, inclusi i dinosauri di decine di milioni di anni fa. Gli esperti generalmente credono che 66 milioni di anni fa un grande meteorite e la sua coda di ceneri incandescenti abbiano sparso sedimenti sulle rocce di tutto il mondo portando alla morte di un gran numero di esseri viventi. Nuove prove e nuovi studi suggeriscono che questo impatto nell’oceano al largo del Messico non solo sia stato devastante ma abbia anche innescato un’attività vulcanica particolarmente intensa in India (nell’altopiano del Deccan) ancora più drammatica rispetto alla norma dell’epoca, aggravando ulteriormente la fine delle forme viventi sul nostro “giovane” pianeta.
Le recenti misurazioni degli esperti dell’Università di Berkeley (vedi Media INAF), finora le più precise mai effettuate su questo periodo geologico, indicano un drammatico aumento delle eruzioni anche dopo 50 mila anni dall’impatto. Per 35 anni, paleontologi e geologi hanno discusso sul ruolo chiave che hanno giocato questi eventi sull’evoluzione del nostro pianeta: alcuni hanno sostenuto che le eruzioni sono state irrilevanti sul lungo periodo, altri hanno appoggiato la teoria che proprio l’impatto è stato l’interruttore che ha scatenato tutto. Per precisione, parliamo dell’eruzione al limite tra il Cretaceo-Terziario che ha portato all’estinzione del 76% delle specie viventi. Sia l’impatto e che l’attività vulcanica avrebbero ricoperto il pianeta con polveri e fumi nocivi, cambiando drasticamente il clima con la conseguente destabilizzazione degli ecosistemi. Poche specie viventi sono riuscite a sopravvivere.
Per avere una idea dell’attività vulcanica in India, Paul Renne e altri ricercatori sono ricorsi alla datazione radiometrica Potassio/Argon ad alta risoluzione dei minerali ignei locali. Questi dati, combinati con lo studio della stratificazione delle rocce, hanno rivelato che alcune sottosezioni di questa regione vulcanica erano già attive prima dell’arrivo dell’asteroide dallo spazio. Dopo la collisione, la squadra ha osservato che la frequenza media di una eruzione in una particolare sottosezione è diminuita drasticamente, ma il volume di lava (per singolo evento eruttivo) è aumentato, raddoppiando la portata dell’eruzione. Gli esperti hanno potuto osservare le tracce di questo grande volume di magma per circa 500 mila anni dopo l’estinzione di massa, quando in mare sono riapparse le prime forme di vita. Pertanto, gli autori dello studio suggeriscono che l’estinzione del Cretaceo può essere il risultato degli effetti combinati della collisione e dell’attività vulcanica.
«Sulla base della datazione della lava, possiamo essere abbastanza certi che il vulcanismo e l’impatto si sono verificati nell’arco di 50 mila anni: entrambi i fenomeni erano chiaramente “al lavoro” contemporaneamente», ha detto Renne, professore dell’Università di Berkeley presso il Geochronology Center. Il co-autore dello studio pubblicato su Science Mark Richards è cauto nel dire quale dei due eventi è stato più distruttivo per gran parte della vita sulla Terra, ma il legame tra l’impatto e le eruzioni sta diventando sempre più difficile da negare. «Se le nostre datazioni continuano ad indicare un rapporto tra l’impatto, l’estinzione e l’aumento dell’attività vulcanica, sempre più persone saranno costrette ad accettare la possibilità di un collegamento tra questi eventi». Insomma non è solo una banale coincidenza.
È dagli anni Ottanta – cioè dalla scoperta delle prove dell’esistenza di questo impatto – che i ricercatori di Berkeley studiano ogni dettaglio dell’estinzione di 66 milioni di anni fa nell’intervallo temporale chiamato limite K-T. Renne e il suo gruppo hanno posto un nuovo scenario alla comunità scientifica: l’impatto del meteorite in Messico ha provocato una catena di eventi catastrofici tra cui eruzioni in tutto il mondo, soprattutto in India nelle formazioni geologiche note come i Trappi del Deccan. Per arrivare alla loro conclusione gli esperti hanno raccolto campioni di lava che coprono un ampio periodo geologico (diverse centinaia di migliaia di anni prima l’estinzione fino a 500 mila anni dopo). Tramite la datazione radiometrica è stato possibile ricostruire la cronologia delle colate laviche e la loro fatale portata.
Nello studio “State shift in Deccan volcanism at the Cretaceous-Paleogene boundary, possibly induced by impact” i ricercatori descrivono gli importanti cambiamenti nella vulcanismo dei Trappi del Deccan: la lava ha «ribollito a lungo, continuamente e in modo relativamente lento» prima dell’estinzione, ha spiegato Renne. Dopo l’impatto, piccole camere magmatiche sono diventate più grandi, il che significa che la lava ha avuto più tempo per riempirle ma di contro le eruzioni sono state più violente e di una portata di gran lunga maggiore. Renne ha poi sottolineato: «Al limite K-T, vediamo grandi cambiamenti nel sistema vulcanico dell’altopiano del Deccan, in termini di ritmo delle eruzioni, del volume della portata lavica e di alcuni aspetti della chimica stessa delle eruzioni».
Secondo Richards, le eruzioni in India possono essere state scatenate anche da un terremoto di magnitudo 8, 9 o 10 (anche più potente di quello che ha colpito il Giappone nel 2011): i geologi sono concordi nel dire che movimenti tellurici possono aver scosso e attivato le camere magmatiche provocando eruzioni durante tutta la storia della Terra. L’estinzione di 66 milioni di anni fa, però, deve essere stata causata da qualcosa di più imponente… ci sono troppe coincidenza finora!
Tramite la datazione isotopica e altre ricerche, Renne e i suoi esperti riusciranno a datare altri campioni di roccia basaltica in India al fine di comprendere meglio le correlazioni tra l’impatto e l’estinzione. Nel frattempo, Richards sta lavorando per capire come i terremoti e gli impatti di asteroidi abbiano provocato queste eruzioni vulcaniche.
Per saperne di più:
Leggi QUI lo studio pubblicato su Science: “State shift in Deccan volcanism at the Cretaceous-Paleogene boundary, possibly induced by impact”, di Paul R. Renne et al.