Quali sono i processi che portano alla formazione delle macchie solari e come si innescano i processi esplosivi ad esse legati, come ad esempio i brillamenti e le espulsioni di massa coronale? A queste domande prova a dare risposta il lavoro di Shin Toriumi, professore associato dell’Osservatorio Astronomico Nazionale del Giappone e dei suoi collaboratori, basato su dati raccolti dalle sonde spaziali Hinode, Solar Dynamics Observatory (SDO), Interface Region Imaging Spectrograph (IRIS) e integrati da sofisticate simulazioni che hanno coinvolto il supercomputer Pleiades della NASA. Lo studio, in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal, mette in evidenza la stretta relazione tra il magnetismo presente nelle zone interne del Sole, la formazione delle macchie sulla sua superficie e i processi dinamici che si sviluppano nell’atmosfera solare.
L’enorme messe di dati scientifici estremamente accurati raccolti negli ultimi anni dalle missioni spaziali dedicate allo studio del Sole ci sta dando una visione sempre più chiara di come i campi magnetici, responsabili della formazione delle macchie solari e delle più violente manifestazioni della nostra stella, si propaghino dall’interno fino alle regioni più esterne del Sole. Inizialmente, i campi magnetici che emergono per formare una macchia sono concentrati in zone relativamente piccole. A volte, quando due ‘proto macchie’ (che prendono il nome di pori, pores in inglese) si avvicinano, convogliano del plasma debolmente magnetizzato, così da formare una struttura allungata chiamata light bridge. Durante il processo che porta alla fusione dei pori, i light bridge si dissolvono e si viene a creare la vera e propria macchia solare. Questo turbolento processo porta alla produzione di getti di plasma ed esplosioni. I ricercatori hanno seguito l’evoluzione di questi processi di formazione delle macchie con le riprese dei telescopi spaziali e hanno ricostruito in dettaglio le strutture magnetiche dei pori e dei light bridge, così come i meccanismi che determinano le esplosioni e le emissioni dei getti.
Le osservazioni ad alta risoluzione dei campi magnetici superficiali solari effettuate da Hinode hanno messo in evidenza che i pori, durante la loro fusione, possiedono intensi campi magnetici orientati in senso verticale, mentre i light bridge mostrano la presenza di campi più deboli e disposti orizzontalmente. I dati provenienti da IRIS sulle proprietà dell’atmosfera al di sopra dei light bridge indicano poi l’innesco di una serie di eventi esplosivi come conseguenza del fenomeno della riconnessione magnetica. Ciò significa che i campi magnetici orizzontali dei light bridge si aprono ripetutamente e si riconnettono con quelli verticali dei pori circostanti.
Il team di Toriumi è poi passato a indagare i processi che guidano la formazione dei light bridge e il disallineamento dei loro campi magnetici rispetto a quelli ad essi circostanti. Per far questo hanno utilizzato sofisticate simulazioni numeriche utilizzando il supercomputer Pleiades della NASA. Il modello teorico ha permesso ai ricercatori di ricostruire le proprietà e le strutture osservate nella realtà, indicando che, quando durante la formazione di una macchia due flussi magnetici distinti si avvicinano, del plasma debolmente magnetizzato rimane intrappolato nel mezzo. Continuando l’avvicinamento, questo materiale viene compresso e genera il light bridge. Il suo campo magnetico è disallineato rispetto a quelli che lo circondano, e questa configurazione origina i fenomeni di riconnessione magnetica e quindi esplosioni ed eruzioni di plasma.
«Il lavoro di Toriumi e collaboratori mostra la valenza di un approccio combinato di osservazioni solari multibanda con sofisticate simulazioni magnetoidrodinamiche (MHD), in grado di riprodurre, entro certi limiti, ben identificati dagli autori, le configurazioni osservate. Lo studio della formazione e delle caratteristiche fisiche dei “ponti luminosi” (light bridge)», spiega Mauro Messerotti, fisico solare dell’INAF di Trieste, al quale abbiamo chiesto un commento, «è infatti un aspetto chiave nella comprensione della formazione delle macchie solari e dell’evoluzione della topologia magnetica fino alla riconnessione di campi di polarità opposte, che determina rilascio di energia e fenomeni di attività di vario tipo. Si aggiunge quindi un tassello metodologico importante nello studio dell’attività solare in fotosfera, poiché le simulazioni mirate consentono di render conto della fisica alla base di tali fenomeni».
«D’altra parte, come gli stessi autori mettono in evidenza, vi sono limitazioni interpretative imposte dalla tipologia del modello di simulazione», osserva Messerotti, «come anche dalla mancanza di dati sperimentali relativi ai campi magnetici ad altezze maggiori della fotosfera. Questo ci dà un’idea della complessità della fenomenologia e della fisica relativa e rende conto del fatto che il percorso verso un modello dettagliato dell’attività solare, in grado di consentire previsioni con un buon grado di affidabilità, è ancora molto lungo e comporta avanzamenti nella sofisticazione delle osservazioni solari da Terra e dallo spazio come anche delle tecniche di simulazione, che si auspica saranno disponibili sul medio termine».
Per saperne di più:
- leggi l’articolo “Light Bridge in a Developing Active Region. II. Numerical Simulation of Flux Emergence and Light Bridge Formation“, di Shin Toriumi, Mark C. M. Cheung e Yukio Katsukawa, accettato per la publbicazione sulla rivista The Astrophysical Journal