L’impresa è entrata nella storia dell’esplorazione del Sistema Solare. 14 luglio 2015: la sonda NASA New Horizons sfiora Plutone – un flyby a 13.691 km dal centro del pianeta nano – e raccoglie dati per 50 gigabit. Dall’analisi preliminare di questi risultati, pubblicata su Science e di cui abbiamo scritto anche noi di MediaINAF, la conferma di un corpo celeste vario e colorato, circondato da cinque lune.
Oggi è il momento di fare il punto su Plutone. Scoperto nel 1930 e da sempre considerato un’anomalia nel Sistema Solare. Anomalia, si potrebbe dire, diffusa a tutta la fascia di Kuiper scoperta nel 1992 e che, là oltre l’orbita di Nettuno, fa di Plutone il più grande di una nuova classe di piccoli pianeti formatisi nel Sistema Solare esterno durante il periodo di accrescimento planetario, circa 4,5 miliardi di anni fa.
Cosa è cambiato dopo il passaggio di New Horizons? La sonda NASA, con il suo carico di sofisticati strumenti scientifici, dalla Multispectral Visible Imaging Camera (MVIC) dello strumento Ralph che ci ha permesso di guardare nella geologia del pianeta, al Long-Range Reconnaissance Imager (LORRI) che tante immagini mozzafiato ci ha regalato nella lunga sequenza di avvicinamento a Plutone, ci ha permesso di scoprire come la superficie di Plutone mostri una grande varietà di morfologie del terreno frutto di differenti ere geologiche. Un discorso, quello della varietà, che vale per l’albedo, il colore, e la variazione della composizione del suolo.
L’analisi della variabilità dei crateri suggerisce che Plutone sia stato geologicamente attivo nell’arco delle ultime centinaia di milioni di anni, e che probabilmente lo sia tutt’ora. Le analisi cromatiche rivelano invece una vasta gamma di colori presente sulla superficie, dalle regioni rossastre e più scure della fascia equatoriale alle brillanti tonalità bluastre che si riscontrano salendo verso i poli.
I dati raccolti suggeriscono, inoltre, la presenza di più varietà di ghiacci volatili, e in particolare, nella regione occidentale della macchia a forma di cuore, di metano e monossido di carbonio. Senza contare il ruolo giocato dal normale ghiaccio d’acqua, un nuovo elemento da prendere in considerazione se si vuole provare a ricostruire la complessa composizione della superficie di Plutone. L’atmosfera? Spessa, con tracce di idrocarburi, genera una pressione al suolo pari a 10 microbars.
Caronte, la luna maggiore di Plutone, si differenzia per massa di roccia dal pianeta di cui è satellite per una percentuale inferiore al 10%, il che suggerisce una non sostanziale differenza fra i due corpi, almeno per quanto concerne la composizione. Plutone e Caronte, che gli scienziati ritengono essersi formati dallo stesso blocco di materia, spezzata da una collisione cosmica miliardi di anni fa, non sembrano ancora poter confermare uno stretto legame di parentela: due estranei, così li ha definiti NASA presentando una delle prime immagini raccolte da New Horizons (vedi MediaINAF).
Ma quello che sappiamo con certezza non è poco: Plutone mostra una sorprendente varietà di costruzioni geologiche, dove agisce l’effetto di ghiacci, crateri da impatto, movimenti tettonici, possibilità di attività criovulcanica. Anche gli altri piccoli pianeti della fascia di Kuiper potrebbero nascondere un turbolento passato simile. La domanda che resta aperta è: come possono questi corpi essere rimasti tanto attivi a miliardi di anni dalla loro formazione?