Clessidra, Manubrio, Farfalla, Eschimese, Occhio di Gatto. Sono solo alcuni dei curiosi nomi che gli astronomi hanno dato, spesso per via della loro forma peculiare, alle nebulose planetarie scoperte nei nostri cieli. Oggetti affascinanti per le loro evanescenti e multicolori strutture che, a dispetto del loro nome, sono in realtà dei resti stellari: giganteschi gusci di gas e polveri in espansione, rilasciati da una stella di taglia solare giunta alla fine del suo ciclo evolutivo. Ciò che rimane di questo astro è una nana bianca, un corpo denso e assai caldo, la cui intensa radiazione ultravioletta illumina come un potente faro il materiale stellare che in precedenza ne costituiva gli strati più esterni, donandogli caratteristici e variegati colori.
Ad oggi sono state scoperte alcune migliaia di nebulose planetarie, molte delle quali sono state studiate con i migliori strumenti a disposizione degli astronomi. Tuttavia, per una discreta frazione di esse, determinare con precisione la loro distanza ha spesso creato più di un grattacapo agli addetti ai lavori. Tre astronomi dell’Università di Hong Kong, David Frew, Quentin Parker e Ivan Bojičić provano a risolvere questa annosa difficoltà presentando un nuovo metodo per stimare con precisione la distanza delle nebulose planetarie nella nostra Galassia. E per farlo utilizzano una relazione che combina tre parametri: la stima dell’indebolimento della luce di questi oggetti dovuto all’assorbimento della polvere e del gas insterstellare, la dimensione della nebulosa proiettata sul piano del cielo e una misura della sua luminosità.
Questa relazione “superficie-luminosità” presentata in un articolo sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è stata calibrata utilizzando oltre 300 nebulose planetarie le cui distanze sono state ottenute con metodi indipendenti e con elevati livelli di precisione. «La tecnica che sta alla base del metodo proposto non è nuova, ma quello che la caratterizza è l’uso delle più aggiornate e affidabili misure di questi tre parametri» commenta Parker.
Secondo le stime indicate dagli autori, questa nuova tecnica permette di stimare le distanze delle nebulose planetarie con una precisione fino a cinque volte migliore dei metodi finora utilizzati. «La nostra nuova tecnica è la prima in grado di determinare con precisione le distanze delle nebulose planetarie più deboli» aggiunge Frew. Un fatto che consentirà agli scienziati di conoscere con altrettanta precisione anche l’estensione di questi oggetti e, quindi, fornirà dati utili per comprendere come si formano ed evolvono queste strutture, e più in generale, come si sviluppano le ultime fasi dell’evoluzione delle stelle simili al Sole.
Per saperne di più:
- l’articolo The Hα surface brightness–radius relation: a robust statistical distance indicator for planetary nebulae di David Frew, Quentin Parker e Ivan Bojicic pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society