FOTOLISI UV E ATMOSFERA MARZIANA

Va’ dove ti porta il carbonio

Uno studio su Nature Communications, firmato da ricercatori del JPL e del Caltech, ricostruisce la storia dell’atmosfera marziana seguendo le tracce degli isotopi del carbonio. E individua nell’azione dei raggi ultravioletti uno fra i principali responsabili della sua rarefazione

     26/11/2015
Il processo di fotolisi dell'anidride carbonica marziana descritto su Nature Communications. Crediti: Lance Hayashida/Caltech Office of Strategic Communications

Il processo di fotolisi dell’anidride carbonica marziana descritto su Nature Communications. Crediti: Lance Hayashida/Caltech Office of Strategic Communications

Follow the carbon. Se vuoi scoprire che fine ha fatto l’atmosfera di Marte, segui il carbonio. Sarebbero le tracce lasciate dal “sesto elemento” l’indizio più affidabile per ricostruire quasi quattro miliardi di anni di storia dell’atmosfera marziana: da un’epoca in cui il pianeta rosso era verosimilmente assai più caldo e più umido, a quel freddo deserto che orbiter e rover d’ogni fatta stanno immortalando negli ultimi decenni.

Follow the carbon, dunque. Ed è proprio ripercorrendo le tracce del carbonio – e in particolare dei suoi due isotopi più comuni, il C-12 e il C-13 (rispettivamente, con 6 e 7 neutroni) – che un team di planetologi del Jet Propulsion Laboratory della NASA e del Caltech, guidato dal ricercatore postdoc Renyu Hu, è giunto alle conclusioni riportate sull’ultimo numero di Nature Communications: il segreto è che non c’è alcun segreto. Nel senso che, scrivono gli scienziati californiani, non c’è alcuna necessità di ipotizzare che manchi all’appello una riserva di carbonio.

La combinazione di tre processi fisico-chimici sarebbe infatti sufficiente a far andare al proprio posto tutti i pezzi del complesso puzzle marziano. E a rendere conto di come un’atmosfera inizialmente più densa di quella attuale, e su questo sono tutti d’accordo, ma comunque con una pressione in superficie non superiore a 1 bar – paragonabile dunque a quella terrestre odierna – possa essersi rarefatta fino ai livelli attuali.

Tre processi, dicevamo. Il primo è l’assorbimento del carbonio, emesso in origine in atmosfera dall’attività vulcanica, nelle rocce carbonatiche. È un processo ben noto, ma non sufficiente a spiegare la carenza odierna dell’elemento: per aver ingurgitato tutto quello che manca, dovrebbero esserci molte più rocce carbonatiche di quelle oggi presenti nella crosta del pianeta. Il secondo è il cosiddetto sputtering: lo spargimento nello spazio del carbonio presente in atmosfera a opera del vento solare. Il terzo infine, quello sul quale si concentra il lavoro di Hu e colleghi, ha invece per protagonista la radiazione ultravioletta, e va sotto il nome di fotolisi. Quando un fotone UV proveniente dal Sole colpisce una molecola di anidride carbonica in alta atmosfera, l’energia assorbita può consentire la scissione in un atomo d’ossigeno e una molecola di monossido di carbonio. Quest’ultima, se colpita a sua volta da un secondo fotone UV, potrà dividersi ulteriormente, lasciando l’atomo di carbonio isolato e, talvolta, con sufficiente energia “in corpo” per abbandonare l’atmosfera marziana.

Ebbene, in entrambi gli ultimi due casi la “fuga da Marte” riesce meglio ai più leggeri atomi di C-12 rispetto a quelli di C-13, appesantiti da quel neutrone in più che si ritrovano. Riesce meglio quanto? Mentre nel caso dello sputtering la differenza sì c’è, ma non sufficiente a giustificare l’abbondanza di C-13 nell’atmosfera marziana rilevata – per esempio – dagli strumenti a bordo del rover Curiosity, avere un neutrone di zavorra in più o in meno cambia in modo significativo (vedi le percentuali nella figura qui sopra) le sorti dell’atomo di carbonio reso single dall’uno-due della radiazione ultravioletta descritto poc’anzi. Le cambia al punto, dicono i calcoli tenendo conto di quanti raggi UV ha ricevuto Marte nel corso degli ultimi 3.8 miliardi di anni, da essere compatibile l’abbondanza relativa di C-13 nella rarefatta atmosfera odierna.

«L’efficienza di questo nuovo processo dimostra come non vi sia, in realtà, alcuna discrepanza fra i risultati delle misure di Curiosity sulla quantità di carbonio arricchito presente in atmosfera da una parte e, dall’altra, la quantità di rocce carbonatiche rinvenute nel suolo del pianeta. Con questo meccanismo», conclude una delle autrici dello studio, Bethany Ehlmann, «possiamo descrivere per Marte uno scenario evolutivo che renda conto dell’apparente disponibilità di carbonio senza dover ipotizzare che manchino all’appello riserve o altri processi». Ulteriori conferme, sottolineano infine gli scienziati, potranno arrivare a breve dalle misure in corso con la missione MAVEN.

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